TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

mercoledì 26 maggio 2010

Viverealtrimenti editrice: per una “globalizzazione dal basso”.

È giunto il momento di inaugurare la casa editrice del Progetto Viverealtrimenti di cui rappresenta il terzo pilastro (il primo ed il secondo sono costituiti dal presente blog-magazine e dal sito www.viverealtrimenti.com).
Naturalmente ha presupposto un lavoro relativamente lungo e faticoso ma, la scorsa settimana, hanno finalmente visto la luce i primi due titoli, presentati in questo stesso post dopo aver delineato, in maniera molto generale, lo spirito della nuova editrice ed aver sommariamente presentato l’editore.


Viverealtrimenti editrice: per una “globalizzazione dal basso”.

Dopo un’intensa gavetta nell’editoria radicale ed alternativa, abbiamo voluto osare di fondare questa nuova casa editrice per offrire maggiore spazio a quanto accade nel mondo meno raccontato da libri e giornali o per raccontarlo in maniera più focalizzata.
La Viverealtrimenti non vuole limitarsi a dare voce ad una fascinosa “marginalità” ma, talora in controtendenza rispetto alla tradizionale cultura alternativa, intende contribuire a portare sperimentazioni politiche, sociali ed esistenziali ed alcune avanguardie culturali fuori dalla penombra.
Viverealtrimenti vuole dunque concorrere alla realizzazione progressiva di una cultura ed una società realmente plurali, cavalcando le migliori opportunità offerte dalla globalizzazione e promuovendo una “globalizzazione dal basso”, sondando i recessi del mondo, asiatico, emergente (senza trascurare alcuni piccoli e grandi tesori dell’Occidente) e creando ponti di dialogo e di mutuo appoggio in uno spazio planetario oramai ravvicinato.
Incoraggiare il lavoro in rete, sul criterio della valorizzazione delle affinità e la smitizzazione di troppi, fuorvianti luoghi comuni rappresentano dunque le ragioni d’essere fondanti di questa nuova editrice (un po’ provocatoriamente) “Sì Global”.

L’editore

Manuel Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora, la maggior parte del suo tempo, tra Londra e l’India. Esordisce nel mondo editoriale, nel 2002, con il saggio Vegetariani come, dove, perchè, pubblicato dalla casa editrice radicale Malatempora. L’anno successivo, con la medesima editrice, pubblica Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, il primo lavoro organico, nel nostro paese, sull’argomento, recensito da radio e giornali.
Nel 2007 pubblica Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo, allargando il focus della ricerca: una co-edizione Malatempora/AAM Terranuova.
Nel 2009 fonda la propria editrice, Viverealtrimenti, per esordire con
Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction e Comuni, comunità, ecovillaggi, il suo terzo lavoro su un antico e moderno movimento di comunità sperimentali ed ecosostenibili.

Sinossi di Comuni, comunita’, ecovillaggi

Un libro frutto di oltre 8 anni di ricerca teorica e sul campo; un excursus che, dalle prime comunità essene, giunge ai moderni ecovillaggi tentando di non trascurare nessuno:
esponenti radicali della riforma protestante, socialisti utopisti, anarchici,
hippies, kibbutzniks, ecologisti più o meno profondi e new-agers.
Una mappatura ragionata — su scala italiana, europea e mondiale ― di gruppi di persone che abbiano deciso di condividere, a diversi livelli, spazi, beni di vario genere e denaro e di un nuovo movimento di comunità sperimentali che abbiano come prioritari valori di tipo ecologico.

Capitolo introduttivo

“Più che un saggio Comuni, comunità, ecovillaggi è un libro di racconti”, mi diceva l’amico critico letterario Plinio Perilli (di cui non mancherò di presentare, prossimamente, una recensione), “in quanto frutto di appassionate esperienze sul campo che sono state rese con una straordinaria capacità narrativa”. Sono ben contento di condividere il punto di vista dell’amico Plinio nella misura in cui non mi sento molto a mio agio nei panni di un distaccato saggista.
Come già in Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo, la presentazione del fenomeno comunitario, in questo mio nuovo testo, da un punto di vista storico come da quello delle realtà presenti oggi in Italia e nel mondo, viene integrata con pagine di un diario di viaggio/vita ove possa concedermi alcune riflessioni in una prospettiva non immediatamente aderente all’oggetto in analisi. Più ampia e, auspicabilmente, più libera.
Segue dunque un breve capitolo introduttivo di Comuni, comunità, ecovillaggi che ha, a parere del sottoscritto, un buon valore narrativo:


Varanasi — India — 27/12/08

Il clima è abbastanza mite, oggi. Il freddo umido che reca spesso disagio, in questo periodo dell’anno — considerata soprattutto l’assenza di impianti di riscaldamento e di vetri alle finestre delle case — ha deciso di concedere una provvisoria, compassionevole tregua.
Nel cielo fluttuano aquiloni di carta colorata, il Gange è particolarmente basso e nella casa del Dharma, dove vivo parte del mio tempo da oltre un anno, assieme ad un’amabile famiglia indiana, risuonano i rumori abituali, “tranquillizzanti”, di una placida quotidianità.
Ogni tanto arriva, distinto, il muggito di una mucca. La terrazza della casa del Dharma, dove sono ora accucciato in un angolo con la mia risma di carta ed una piccola penna a sfera, si affaccia su di un micro-addensato edile e sullo spazioso cortile di una “stalla urbana”.
Gli arcaici vicoli di Varanasi presentano non di rado cortili-microcosmi dove si issano, con carrucole primordiali, secchi di acqua dal pozzo. Dove rozze capanne di fango, paglia e bambù danno riparo a capre, pecore, vitelli e qualche bovino adulto. Cortili alle cui mura aderiscono tante cialde grassocce di sterco di mucca — recanti quasi tutte l’impronta di una mano spesso minuta — utilizzate, in genere, come combustibile. Non solo: le loro fumigazioni purificano i panni stesi ad asciugare al sole, generalmente presente, pur nella stagione fredda, almeno sin tanto che la foschia non prenda il sopravvento. In quei casi, la città rimane sospesa in una dimensione quasi di immobile miraggio che ne accentua il noto carattere metafisico.
La vicinanza della stalla porta odore di letame. Un odore meravigliosamente ancestrale con cui, ricordo, acquisii una buona familiarità nel corso di un’estate a zonzo nelle campagne del centro-Italia, visitando comunità intenzionali ed ecovillaggi di cui avrei, successivamente, scritto.
Fui molto felice di questa mia nuova assonanza, avvezzo come ero, per nascita, ad odori di benzina bruciata ed altri di periferia metropolitana.
Nostri dirimpettai, a Varanasi, sono serafici e spesso seminudi samnyasin di un ordine vaishnava. Il loro ashram ha il suo cortile-microcosmo dove anche si issano secchi di acqua dal pozzo e dove diverse mucche trovano nutrimento e, pur spartano, riparo. La mattina e la sera risuonano le campane della loro puja, la celebrazione di offerta alla divinità.
La casa del Dharma, un palazzo di tre piani e terrazzo, ha, al piano terra, un tempio antico di tre secoli dedicato a Ma — la Dea — arcaica espressione materna di Dio. L’India pre-ariana, tendenzialmente matriarcale, con il suo centro nelle oramai celebri Harappa e Mohenjo-Daro — dove donne-sacerdotesse officiavano riti ad una divinità femminile, espressione della maternità della terra — l’ho ritrovata, in piccolo ologramma, qui, nella casa del Dharma e nella sua anima carismatica: la Mata-Ji, la “signora-madre”. È una donna corpulenta, sostanzialmente obesa, comoda nel largo sari. Un personaggio con una eco di eternità per la sua vita in poco o nulla diversa da quella di tante donne indiane che l’hanno preceduta e tuttavia, con tutto il suo portato arcaico e due bicipiti da Obelix, più o meno a suo agio nel ventunesimo secolo. È la magia dell’abolizione del tempo di cui l’India sa ancora essere maestra. È la Mata-ji ad officiare la puja nel tempio domestico, a recitare i mantra innanzi alla statua della dea ed è lei ad essere consultata per qualunque cosa importante. Il marito compare poco, non compromettendo l’autorità della matriarca. È particolarmente bello, nella sua assoluta essenzialità, il rapporto che si è creato tra me e questa donna. Lei non parla praticamente inglese ed il mio hindi è ancora troppo scarno perchè si possa dire che comunichiamo. Riusciamo in qualche modo a capirci ma andiamo avanti per concetti elementari. Seguendo una tradizione abbastanza consolidata in India, ho iniziato subito a rivolgermi a lei — insediato nella casa del Dharma — usando il termine rispettoso e, allo stesso tempo, affettuoso che usano i figli e le figlie con le loro madri: Mata-ji. Lei, di risposta, ha iniziato a chiamarmi betta: figliolo. Questo non ha potuto non creare una dimensione di bella familiarità, di intimità ed è davvero strano come possa sentirmi così a casa qui, in un altro continente, in un paese profondamente diverso da quello in cui sono nato e cresciuto. Molte volte sento che quella linguistica è una barriera solo illusoria e di essere, sobriamente, tra la mia gente.
Dopo aver girato e girato, aver avuto diverse case o pseudo-tali, posso dire di non aver mai amato tanto e con tanta sobrietà un posto come la casa del Dharma. Sono dunque felice di iniziare qui a scrivere questo mio nuovo libro.
A Varanasi, in apparenza, tutto si muove con una snervante lentezza e tuttavia posso dire che le idee migliori, i migliori progetti hanno qui una splendida gestazione. Nella maggior parte dei casi diventano operativi altrove, trovano in altri contesti una realizzazione materiale che non potrebbe non essere penalizzata, in questo posto, dalla precarietà di tutto.
Non va comunque dimenticato quale chioccia millenaria ed in sonno sia questa città, a quanto pensiero ha dato impulso senza perdere mai la sua controversa natura. Basti pensare ad un principe-asceta, 2500 anni or sono, che “fresco” di bodhi (comprensione, “illuminazione”) a Bodhgaya, sotto un Ficus Religiosa, persuaso dal dio Brahma a non tenere unicamente per sè la conoscenza acquisita, si è messo in cammino. Ha raggiunto questo posto che allora era indiscutibilmente un “ombellico del mondo”, dove ogni ricercatore sperava di trovare un maestro o dei discepoli, dove pionieri di prospettive filosofiche possibili o impossibili si sfidavano a duello dialettico. Sulle rive del più sacro dei fiumi indiani, allora pulito, si suonavano bhansuri (flauti in canna di bambù), si facevano asana yogiche, esercizi respiratori (pranayama), si conversava o si sedeva semplicemente in silenzio mentre nel fiume trascorrevano piroghe, barche e barcaioli indolenti.
Costui si fermò, in principio, in un parco di alberi vetusti, monumentali e gazzelle esuberanti appena fuori la città (allora Kashi, “la città della luce”). Si chiamava, appunto, il Parco delle gazzelle e lì “mise in moto la ruota del Dharma” che continua, pur con un fisiologico affanno, a girare.
Era conosciuto come l’eremita silenzioso del clan degli Shakya (Shakyamuni) o, più semplicemente, come colui che aveva compreso: il Buddha.
Si racconta che, qualche secolo dopo, un altro grande ricercatore del vero sia giunto qui, si sia bagnato nelle acque del fiume sacro ed abbia partecipato a duelli dialettici prima di ritirarsi, in ascesi, sulle montagne, prediligendo le aree del Ladakh e, soprattutto, del Kashmir.
Era probabilmente giunto in India negli “anni di cui non parlano i vangeli”, viaggiando senza soldi, al seguito di carovane di mercanti. Si chiamava Joshua (o Yeshua) Ben Josef, Yuzu in Persia, Isha in India. Da noi, per riprendere il titolo di una vecchia canzone di Fabrizio De André, si chiamava Gesù.
Si racconta non resistette molto a Varanasi, capitale di uno spietato braminismo. Proclamava l’uguaglianza di tutti gli uomini, aprendo un sentiero che sarebbe stato poi percorso da molti — socialisti più o meno utopisti, anarchici, comunisti — e compiendo un passo, epocale, di civiltà.
Dopo di lui, tanti altri si sarebbero avvicendati in questa città: uomini grandi e meno grandi, troppo spesso “non abbastanza grandi per le loro idee”. Varanasi sta cambiando ogni giorno e pullula di internet point. Ogni tanto le connessioni saltano perché gangs di scimmie, sui tetti, rosicchiano i cavi. La stessa corrente elettrica è, come dire, “impermanente” ma, a scanso di tutto questo, la chioccia millenaria continua, in sonno, a covare.
Non posso, dunque, non renderle grazie per quanto sta covando anche nella mia testa mentre cerco di contrastare, con un paio di scaldini a gas ed un rozzo spazio per il fuoco, il freddo penetrante nella casa del Dharma, sperando davvero che il prodotto di questa cova sia, il più possibile, proficuo.

Nelle pagine che seguono, ovvero nel primo capitolo, tenterò di tratteggiare una panoramica storica delle esperienze comunitarie, a partire dall’età pre-cristiana, attraversando “senza soste” il medioevo e considerando alcune frange protestanti del sedicesimo e diciassettesimo secolo. Raggiungendo i secoli diciottesimo e diciannovesimo, focalizzeremo l’attenzione su molti, diversi “laboratori di utopia” che hanno preso corpo soprattutto negli Stati Uniti. A partire dalla seconda decade del Novecento, verrà rapidamente presentata l’esperienza dei Kibbutzim, in Israele, da cui salteremo brevemente in Ucraina e poi in Spagna, considerando i frutti comunitari del pensiero anarchico. Saremo poi negli anni ’60 del secolo appena trascorso, nel periodo di febbrile contestazione ed elaborazione di stili di vita radicalmente alternativi. Considereremo il fenomeno hippy, soprattutto nelle sue implicazioni comunitarie e, di lì, il passaggio alla prima New Age ed alle cosiddette “comunità acquariane” sarà quasi automatico.
Il secondo capitolo verrà dedicato alla trattazione della “internazionale comunitaria”, di quanto cioè sta accadendo nel mondo delle comunià intenzionali e degli ecovillaggi considerato, nella misura del possible, in maniera “planetaria”. In questo capitolo verranno presentate le più importanti realtà comunitarie, non senza aver prima fatto il punto sul lavoro di networking, fondamentale per rinforzare la dimensione movimentista del fenomeno in analisi.
Il terzo capitolo, probabilmente il più nutrito, sarà integralmente “italiano”. In virtù di una geografia più circoscritta, si potranno considerare le realtà comunitarie presenti sul nostro territorio in maniera più dettagliata. Queste verranno presentate per regione, procedendo da nord verso sud.
Nel capitolo conclusivo, l’attenzione verrà focalizzata sulle problematiche fondamentali delle esperienze comunitarie oggi e non mancheranno riflessioni e proposte concrete per un migliore (naturalmente a parere di chi scrive) futuro comunitario.

Sinossi di Un giardino dell’Eden

Come accennato è questo il mio primo lavoro di fiction che mi venne, in principio, commissionato da Angelo Quattrocchi, editore di Malatempora. Dato il committente mi sono permesso, in questo testo, qualche descrizione particolarmente audace che ha tuttavia avuto, in genere, dei buoni riscontri presso i primi lettori.
Ne presento di seguito la sinossi e, poi, una breve selezione di alcuni brani:


Siddharta vive di qualche traduzione ma soprattutto della rendita del suo appartamento di Roma. A suo modo è una persona molto spirituale ma non crede in Dio…e nemmeno nell’uomo.
Odia la città ed ama le comuni e gli stili di vita “alternativi” ma ha le idee decisamente confuse.
Lascia la sua donna, Camelia e conosce una crisi profonda.
Seguendo la sua attitudine nomadica, girovaga tra una comune, una casa di amici, una comunità spirituale…sino ad approdare in India.
Vive qualche tempo a Varanasi, dove gli hindu sperano di morire per l’ultima volta e nella futuribile ed ecologica città di Auroville, in fondo al subcontinente.
Si ritrova più di una volta solo per perdersi ancora.
La storia di un’inquietudine profonda, di una ricerca — antica come
l’uomo — del paradiso perduto.

Selezione di brani


Si sveglia a metà mattinata, esce sull’aia del casale, si avvia verso un tavolo dove siedono 5 o 6 squatters e Camelia.
I suoi occhi celesti, i capelli ramati illuminano sommessamente la desolazione materiale del luogo.
Si trovano presto a passeggiare insieme per le stradine dissestate, alberate e silenziose dei dintorni.
Siddharta non resiste neanche due secondi. Le prende subito il viso tra le mani.
La pelle delle sue guance è morbida e rosata. Sembra quella di una bambina.
È fresca e non ha mai conosciuto sofisticazioni di nessun tipo.
«Quanto sei bella», le fa, «sei meravigliosa, Camelia!».
Lei combatte tra un’esplicita voglia di abbandonarsi alle sue moine, ai suoi abbracci e, appena dopo, alla sua lingua che sfonda la resistenza dei denti ed inizia a giocare con la sua e la risoluzione a non andare oltre.
Riesce a contenere la passione di Siddharta che non fa che carezzarla, baciarla, riempirla di parole tenere e audaci.
Lei si fa intridere del suo amore ma non si abbandona.
Siddharta si perde liquido seminale nelle mutande ed è preoccupato per le sbavature disseccate che ci resteranno.
Presto si sdraiano sotto alcuni alberi.
Siddharta insinua una mano sotto la sua maglietta ben sapendo che Camelia, in questi contesti, fa volentieri a meno del reggiseno.
Riprende contatto con la pelle fresca delle sue mammelle prosperose ma lei lo ferma: «No, dai, non andare oltre, ti prego!».
Lui di fronte a questa richiesta gentile si mette manzo ma poco dopo è di nuovo all’attacco.
Porta avanti un lavoro combinato: discorsi di profondo coinvolgimento sentimentale e mani che, subdole, indugiano sulla pancia morbida di Camelia per poi, piano piano, salire per carezze fugaci che non le danno neanche il tempo di prendere opportune precauzioni.
Lui sa di avere nell’inconscio di Camelia un valido alleato.
Lei vorrebbe che si mantenessero un minimo le distanze ma continua a farsi strapazzare.
Le sue difese gradualmente si abbassano e la lingua di Siddharta riesce presto a giocare amorevolmente con la sua.
Nello squat, intanto, bambini seminudi con una tavolozza di macchie di sugo sulla maglietta e nasi calanti una variegata viscoseria, giocano accucciati nell’aia di fango compatto e comodamente calpestabile.
Uno fa pure la cacca tra i ciuffi d’erba, che segnano un limite assolutamente valicabile tra l’aia ed il selvatico. [pp. 59-60]

[…]ma a Varanasi la morte perde il suo alone tragico. Viene bruciata sul fiume mentre nel cielo fluttuano i rombi di carta colorata e i bambini li direzionano a due passi dalle pire.
Nei loro volti irradia una gioia primordiale mentre cani malandati e particolarmente cauti frugano tra le rimanenze di fuochi estinti, in cerca di ossa umane.
Sulle acque trascorrono barche e barcaioli indolenti ed ogni cosa, nel microcosmo del fiume sacro, sospeso al di là di ogni usuale coordinata temporale, vibra della stessa, indecifrabile armonia.
Relativizza dunque il suo malessere esistenziale, Siddharta.
Inizia a sentire quanto già vivere, esserci, possa essere un grande privilegio.
Si incammina dunque silenzioso verso casa, con scarpe aperte in stile sfacciatamente orientale, per una cena di poche pretese. [pp. 76-77]

La suoneria del cellulare di Surya è struggente e carica di nostalgia.
I suoi occhi a volte si spalancano per esprimere generosamente “l’ultraesprimibile”.
La sua pelle è di velluto un po’ brunito, l’anima di un candore estraneo al corrotto Occidente.
Surya offre a Siddharta qualche frammento del suo passato indiano.
Gli racconta di un suo periodo di assistenza ai lebbrosi, che le sarebbe costato una piaga inquietante alla base del collo; un inizio esplicito di lebbra.
Il suo maestro le avrebbe allora consigliato una specifica tecnica di dhyana (traducibile, un po’ sommariamente, con “meditazione”).
Una tecnica molto efficace, risolutrice.
Siddharta, dopo qualche tempo, ha la fortuna di conoscere questo personaggio enigmatico così spesso sulle labbra di Surya: Guru-ji.
Arriva un giorno che fuori ha appena annottato.
Bussa alla porta solcata di crepe della stanza-tugurio dove Surya insegna yoga.
Siddharta è a testa in giù e gambe in aria su un vecchio materassino sottile intriso di polvere ed acari con bazooka e ricoperto con un lenzuolo ingrigito e liso da lavate primitive, a risparmio di sapone.
Surya apre la porta: «Guru-ji!» esclama, spalancando i suoi occhi neri ad esprimere una gioia senza argini mondani e chinandosi sollecita a toccargli i piedi.
Lui porta la sua figura fuori del tempo profano e di tutto quanto costella il contingente nella stanza-tugurio dove Surya insegna yoga.
Ha un vecchio dothi dai fianchi in giù, il tilak segnato in rosso sulla fronte un po’ stempiata [pp. 83-84]

[…] Daddy, a questo punto, si lascia andare un po’ ai ricordi: «la prima volta che venni in India, trent’anni fa, arrivai alla stazione di Delhi che era una cosa…100 volte peggio di oggi.
In terra c’erano sputi rossi ovunque, da non poter camminare, non c’era un centimetro libero.
Io allora non sapevo che gli indiani masticano il pan tutto il tempo, che gli stimola la salivazione e dunque sputano ovunque rigagnoli che sembrano sanguinolenti. Pensavo fossero tutti tisici e ho avuto paura, poi ho deciso di affidarmi e pensare: sia di me quello che deve essere e, poco dopo, ho scoperto che mi ero preoccupato inutilmente.
Arrivai presto a Varanasi.
In Italia, prima di partire, un amico che era già venuto in India e si era perso per due anni mi aveva detto: lì incontrerai sguardi di una misteriosa purezza, una purezza che, in principio, ti farà sentire sporco ma tu lascia passare i giorni e, piano piano, inizierai quasi a poterti specchiare tra le sfumature scure di quegli occhi ed allora avrai ritrovato la tua di purezza.
È stato proprio così.
L’India è un cuore di silenzio in un guscio di caos e di delirio, quest’India così putrida e cruda, brutalmente e fascinosamente incomprensibile a noi europei, questa madre spesso così amorevole e, a volte, così spietata […]» [pp. 89-90].

Chiunque volesse acquistare i libri di Viverealtrimenti può cliccare qui, seguire la procedura guidata per averli comodamente a casa propria, senza spese di spedizione, entro due o tre giorni lavorativi.