Sono giunto a Colombo l'11 di ottobre per ottenere un nuovo visto e ritornare in India. In virtù della complessità del visto richiesto e delle lungaggini dell'ambasciata indiana, ho deciso di rimanere più del tempo programmato (un paio di settimane). Siamo oramai sul calare di novembre e sono ancora qui. Ho iniziato difatti collaborare con Sarvodaya, cui ho già accennato alcuni post addietro.
Sarvodaya, una delle realtà più importanti del GEN (Global Ecovillage Network), è un'organizzazione di base che coinvolge oltre 15000 villaggi srilankesi. Promuove il microcredito e garantisce gli elementi basici di una vita decente a tutti i suoi membri. Non è esente da limiti ma trovo sia una realtà molto interessante, il cui esempio può essere seguito, con opportuni adattamenti, anche in paesi più sviluppati. Non mancherò di tornare su Sarvodaya e di parlarne in modo più approfondito. Ora preferisco raccontare qualche mia esperienza in questa terra e nel network comunitario citato.
Gampaha
È distante appena 45 minuti da Colombo. Un tempo da trascorrere, spesso in piedi, su di un treno che ricorda facilmente le nostre linee metropolitane. Con la differenza che anche in questo caso, come ho già scritto per i treni indiani e gli autobus di Colombo, corre con i portelli aperti. Corre lungo paesaggi riccoverdi in cui risaie o fiumi placidamente animati spezzano l’intensità lussureggiante dei coccheti e dei banani e di chissà quali altre specie vegetali. Corre e si ferma in stazioni secondarie, preservate dal freddo anonimato delle nostre stazioncine europee, colorate, sobriamente vitali. Sul treno è un moderato via vai di venditori di modeste cianfrusaglie, di poveri sacchetti di noccioline. Non manca qualche mendicante o qualche istrione che si cimenta in capriole un po’ spericolate nel vagone o in prove di forza alzando con i piedi ― a testa in giù nell’asana yogica della candela — un pesante macigno. Il tutto, per una manciata di rupie spiegazzate.
Gampaha è una cittadina come tante nel turgore della foresta srilankese. Con i suoi templi buddisti e le sue chiese, i suoi mercati, i daba “moscheolenti”, i suoi tuk tuk, i vestiti sobri e pudichi delle donne, le loro lunghe capigliature nere, qualche cane malandato, qualche insegna di compagnia telefonica, poca ressa, poche smanie, poco clamore. Il distretto di Sarvodaya rimane un po’ fuori città. È costituito da un paio di edifici a piano unico su un francobollo di terreno preso in prestito alla foresta.
Un terreno con un vecchio pozzo, un paio di tettoie per poche bufale e qualche vitello, dove si aggirano visibili, nel verde, un grosso gallo bianco e più discrete galline. Nel distretto vive Nimal-Aya con la famiglia, con la moglie e due figli maschi, di 7 e 14 anni. Persone semplici, in simbiosi con il loro ambiente naturale. Il francobollo di terreno da loro l’indispensabile per vivere: le banana (da mangiare crude o cotte), i jack fruits (da mangiare crudi o cotti), il latte delle bufale, le noci di cocco, ingrediente fondamentale delle ricette srilankesi. Non manca difatti, nella cucina di Manel-Akha, moglie di Nimal-Aya, un utensile primitivo, a manovella, per raschiare scagliette di cocco dall’interno delle noci aperte. Le scagliette vengono mescolate con dell’acqua che ne acquisisce il sapore. Questa, mischiata con altra acqua spremuta dall’impasto delle scagliette, viene usata nella cottura di quasi ogni pietanza ragion per cui, in Sri Lanka, è possibile ravvisare il peculiare sapore di cocco quasi in ogni piatto. Le galline danno, naturalmente, le uova fresche ma non la carne, data l’etica tradizionalmente vegetariana di Sarvodaya. Eccezioni saltuarie vengono invece fatte per piccoli pesci che Nimal-Aya e Manel-Akha allevano in pochi metri di stagno.
La cucina è disarmantemente semplice, mi ha ricordato subito quelle che ho visto in zone particolarmente primitive in India ed in Nepal. Lo spazio in cui vengono cotti i cibi è una semplice struttura in terra cruda con 4 nicchie dove possono essere messi a bruciare piccoli pezzi di legna. Sui bordi della struttura, all’altezza delle nicchie, possono essere poggiate pentole o padelle in lega, annerite dalla fuliggine, a 20-40 centimetri dal crepitare della legna. È il tipo di cucina “più amata” dai ceti contadini srilankesi, dagli adivasi del Kerala, da montanari nepalesi e chissà da quanti altri spezzoni, dimenticati, di popoli. Manel-Akha ha uno sguardo estatico, gioioso, pur nell’ambito di una vita che non riesce a non trovare un po’ monotona. Vive nel francobollo di terreno, buona parte del tempo dietro la struttura in terra cruda, cucinando per il marito ― militante impegnato di Sarvodaya e piccolo allevatore — e per i figli Damidu e Ganidu. Vive, tuttavia, una vita fitta di relazioni, con la casa spesso occupata da militanti del movimento o di parenti o amici di passaggio. Il network di Sarvodaya, del resto, è sempre presente nella vita dei suoi membri. La domenica è quasi sempre giorno di ritrovo a casa di qualcuno, nella costellazione di vicini villaggi. Non mancano legami abbastanza stretti con monasteri di buddismo theravada ragion per cui, nel corso degli incontri domenicali, i monaci hanno modo, la mattina, di trasmettere la loro saggezza ai laici, come da antica tradizione ed essere rifocillati, serviti e riveriti. Mi è sembrato di percepire che la presenza dei monaci (in genere in numero di 10-15) porti un ineffabile equilibrio negli ambienti, con le loro parole pacate, veicolate a mo’ di predica, cui fanno spesso seguito recitazioni di mantra. Dar da mangiare ai monaci è, potenzialmente, dovere di ogni laico presente. Loro siedono, uno vicino all’altro, in fila orizzontale, avvolti nei loro abiti arancione, zafferano o amaranto. Ciascuno ha, davanti a sé, la propria ciotola capiente. Il cibo abbonda sulle tavole della casa ospite di turno. Ciascuno ha portato qualcosa da casa propria, in un bello spirito di condivisione (lo stesso che ho ritrovato, ultimamente, nel corso di un’agape fraterna della Società Teosofica in Italia). I laici prendono, ciascuno, un piatto dal ricco desco della casa ospite e, sfilando davanti ai monaci, servono un po’ di pietanza nella ciotola di ciascuno. Il monaco può accettare o rifiutare con un semplice gesto della mano. Nel momento in cui copre la ciotola con il palmo aperto significa, naturalmente, che non ha intenzione di essere servito. Dopo pranzo viene offerta loro la radice di betel nella foglia di pan utilizzata, tradizionalmente, anche qui come in India (in cui credo si possa facilmente dire che se ne abusi) ed in Birmania.
A questo punto è giunto, per i monaci, il momento di ritirarsi ed il desco resta ad integrale disposizione dei laici. Personalmente ho avuto modo di godere di diversi omaggi e trattamenti di favore qui in Sri Lanka. Ad esempio, nel corso di questi incontri, mi è stato chiesto di servirmi per primo. Ho avuto dunque modo di scegliere con cura nella vasta offerta di pietanze. Ce ne era davvero per tutti i gusti, per carnivori e vegetariani. Tutto, anche il pollo, all’inconfondibile sapore di cocco. Ottimi, poi, i dolci. Meritano menzione il tipico wattalappam, una sorta di cream caramel arricchito con frutta secca (uva sultanina, frammenti di anacardi e di arachidi) e dell’ottimo gelato alla vaniglia fatto in casa.
Il tutto senza una goccia di alcool, bevendo semplicemente acqua.
Nimal-Aya e Manel-Akha vivono con gli introiti del latte di bufala ed affittando qualche stanza nel distretto di Sarvodaya.
La loro è una grande casa, pur poco ammobiliata, con bella veranda con vista su di un giovane coccheto, perfetta per leggere, scrivere e fumare i discreti sigari locali.
Va anche bene, per me e Damidu, il più piccolo dei due fratelli, per giocare con l’arco e le frecce con punte a ventosa. Ricordo che era uno dei miei giochi preferiti quando ero bambino e sono ben contento, ora, di riviverlo con un amico srilankese di 31 anni più giovane.
Giochiamo anche a badminton, nel francobollo di terreno e a cricket. Gampaha è dunque, per me, in questo mio soggiorno srilankese, il posto ideale per riprendere fiato dal fisiologico caos di Moratuwa (dove ha sede il quartier generale di Sarvodaya e dove dunque passo la maggior parte del mio tempo) e di Colombo. Il sabato prendo, regolarmente, magari al volo, il treno-metropolitana con i portelli aperti. Raggiungo questa piccola oasi di semplicità ed innocenza, questa famiglia di “elfi esotici” e, automaticamente, seguendo la tradizione di Sarvodaya, divento Manu-Aya (fratello Manu; il nome abbreviato che uso in Asia perché si presta meglio ad essere ricordato) o Manu-Malli (fratello più giovane Manu) come mi chiama Manel-Akha (sorella Manel). A Gampaha ho dunque ritrovato un posto dove nutrire la fiducia nell’essere umano, dove ci si possa davvero permettere di sentirsi come in famiglia, in un rapporto di fratellanza che possa diventare via via più autentico, meno sproloquiato ed affatto retorico.