TRANSUMANZA

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mercoledì 4 novembre 2009

Sri Lanka: brevi note di viaggio.

La hostess ha una bellezza raffinata ed aborigena ad un tempo, con la sua standardizzata capigliatura a cipolla. Indossa un sari blue per buona parte aperto sulla schiena ed ha la pelle color cioccolato deciso. L’aereo arriva puntualissimo a Colombo. Siamo partiti dall’aereoporto di Gaya, nello stato indiano del Bihar, poco distante dal Mahabodhi Temple e dal Bodhi Tree dove il Buddha, 2500 anni or sono, ebbe l’esperienza del “risveglio”, della “grande comprensione” (la radice sanscrita Budh sta infatti per “intelletto”), orrendamente tradotta, a parere di chi scrive, con il termine “illuminazione”.
Nella hall dell’aereoporto di Gaya campeggia una statua gigantesca di Gautama Siddharta, laccata in oro. Risuona, inoltre, uno dei principali mantra buddisti in filodiffusione. Posso dunque dire che siamo partiti sotto i migliori auspici.
Giunto al banco dell’immigrazione, nell’aeroporto quasi rutilante di Colombo (pur alla lontana, Thailandia docet qui), mi imbatto in una scritta inquietante: chiunque dovesse essere sorpreso a portare droghe, in Sri Lanka, incorre nella pena capitale (death penality). Io, tra l’altro, non sono in una posizione regolarissima. È una di quelle situazioni paradossali in cui ci si può trovare in questi paesi. Non ho, in poche parole, il biglietto di ritorno. Il mio agente di viaggio, a Varanasi, mi aveva detto che è illegale comprare un biglietto, dallo Sri Lanka per l’India, nel momento in cui non si ha un visto per stare in India (visto che ho intenzione di richiedere all’ambasciata indiana di Colombo). Allo stesso tempo, però, non si potrebbe ottenere il visto sri-lankese, all’aeroporto, se non si ha un biglietto di rientro o, comunque, di uscita dal paese. Io, naturalmente, faccio il vago. L’impiegato mi chiede quanto intendo restare mentre imprime un timbro sul passaporto. Venti giorni, rispondo. Sul timbro è riportato il mio permesso di un mese. L’impiegato non manca, però, di chiedermi il biglietto di rientro. Gli spiego che il mio agente non me lo ha potuto fornire adducendo la questione dell’illegalità. «Dunque lei non ha il biglietto di ritorno?» mi ribatte lui. «No ma intendo farlo quanto prima, ho il numero telefonico di un rappresentante, qui a Colombo, dell’agenzia con cui ho fatto il biglietto a Varanasi». L’impiegato non è convinto e dice una parolina magica che si sente, a mo’ di mantra, di continuo in India: «problem!». Io insisto con la storia del rappresentante del mio agente di viaggio e lui mi lascia passare. Ho prenotato per un paio di notti all’hotel Colombo House, in centro-città. Fatico, con il taxi-driver, a trovarlo, data la numerazione piuttosto irrazionale delle strade. Il posto più che un albergo è una signorile villa coloniale, con bel mobilio anni ’30-’40, in una tranquilla area residenziale. Ha appena 4 stanze. Come altre, vicine, abitazioni, ancora in stile coloniale, ha un giardino con bella vegetazione ubertosa ed un micro-bosco di canne di bambù. La mattina è un splendido risuonare di uccelli tropicali. Alcune abitazioni vicine hanno alberi monumentali sul proprio terreno, non di rado Banyan Trees con i rami che, dall’alto, radicano in terra, con radici aeree che si fortificano in veri e propri tronchi. Ci sono, in altre parole, suggestive sezioni di foresta in centro-città.
Colombo è senz’altro più pulita delle città indiane (mi posso quasi azzardare a dire: senza eccezioni di sorta) e ne balza subito all’occhio la dimensione multireligiosa. Diversi angoli e crocicchi ospitano edicole con statue di Gesù (il più delle volte in piedi nell’atto di predicare o benedire e non pietosamente appeso ad una croce), della Madonna o santi cristiani (in particolare Sant’Antonio). Più spesso statue di Buddha, seduto in meditazione o, a sua volta, in piedi, in tutta la sua imponenza carismatica. Si incontrano chiese di diverse confessioni cristiane, eredità del colonialismo portoghese, olandese e britannico, stupa e pagode e non mancano piccole moschee, a seguito dello stanziamento, sull'isola, di commercianti arabi a partire dai primi secoli dell'era cristiana e dagli albori, nel settimo secolo dopo Cristo, dell'Islam. Poche le tracce dell’induismo, ugualmente presente nel paese, portato soprattutto dai vicini territori tamil. Sugli autobus si possono trovare gigantografie della dea hindu della ricchezza, Lakshmi, nell’atto di produrre monete d’oro dalla sua mano destra. Credo si possa dunque parlare di un colorato pot pourri. Prendere l’autobus governativo, a Colombo, può far assaporare l’essenza del viaggio quasi come viaggiare, per le lunghe percorrenze, sui treni indiani. Sono vetture meravigliosamente obsolete, parallelepipedi di lamiera, a design schematico, "da paese sovietico". Avranno, in genere, non meno di 25-30 anni; sono un pezzo di anni ’70-primi anni ’80 con le ruote e, tuttavia, sembrano tenuti abbastanza bene. Dentro c’è quasi sempre un’atmosfera morigeratamente delirante, da paese tropicale. La musica ad alto volume. I finestrini costantemente aperti, con grandi correnti d’aria in tutto l’abitacolo. Le ragazze sono molto femminili. Indossano sari o larghe, comode e pudiche gonne di cotone. Di rado sono truccate mentre profumano, il più delle volte, di saponi esotici. Il bigliettaio va su e giù, gli spazi tra le dita di una mano pieni di banconote pieghettate. Ad ogni fermata urla le destinazioni principali. Ed anche gli autobus di Colombo, come i treni indiani, corrono aperti, con portelli aperti sul trascorrere della strada impolverata, grigia d’asfalto. Le persone, spesso, salgono “al volo” sul mezzo in movimento. Sono tanti gli autobus a Colombo. Mi sembra rappresentino un buon servizio pubblico. È dunque difficile siano sovraffollati. C’è quasi sempre posto a sedere per tutti ed i posti non sono stati concepiti al risparmio, stretti, angusti, come ho potuto notare (e soffrire) il più delle volte, in India ed in Nepal. Sono comodi, nella loro asciutta spartanità. La gente mi sembra civile, poco prevaricatrice (al contrario, ancora una volta, di quanto si possa percepire in India, dove l’inciviltà, pur a fronte di alcuni aspetti straordinari del paese, regna grossomodo sovrana).
Mi sembra ci sia un bell’equilibrio di popolo, qui. Credo sia nettamente percepibile l’effetto calmierante del buddismo e di un cristianesimo di devozione che può ricordare quello, sobriamente popolare, delle Filippine o dell’America Latina. Non manca, del resto, la Colombo a 5 stelle, con hotel in cui sono riprodotti, nelle ampie hall, piccoli canali artificiali di stile moghul, ristoranti e caffè francamente pretenziosi, taluni con pretese di arte moderna, di avanguardia “stantia”.
Contrastano con i daba, le canteens, dove mangia la gente del popolo, generalmente con le mani. Il riso abbonda sulle loro tavole, in grandi scodelle da cui ci si può servire con piattini di metallo. Più striminzite le porzioni di carne (spesso pollo) e di pesce. Non si lasciano desiderare i crostacei, soprattutto i gamberi, in intingoli di cipolle e peperoncino. Anche qui, come in India, il consumo di alcool è tenuto a freno. Non tutti hanno la licenza per venderlo e, in molti casi, bisogna comprarlo in negozi specializzati, con commessi dietro inquietanti inferriate ed una, generale, aura un po’ sinistra. Diversamente che in India, tuttavia, ci sono un discreto numero di bar, finanche di pub, dove servono quantitativi generosi di Arrak, un liquore di 38 gradi ricavato dal fiore della palma da cocco.
A Colombo merita visitare il National Museum, ricchissimo di sculture, dove è possibile ritrovare diversi degli stili tradizionali indiani. Inutile dire che la statuaria dominante rappresenta il Buddha ma non mancano rappresentazioni di Vishnu, Parvati, delle sapta matrikas, le sette madri, ovvero le consorti dei principali dèi della tradizione vedica a testimonianza di un passato arcaico di questa terra, popolata molto presto da genti provenienti dal vicino subcontinente. I primi singhalesi, originari del nord dell’India, arrivarono in Sri Lanka intorno al quinto-sesto secolo avanti Cristo. A questa prima ondata avrebbe fatto seguito un'altra di commercianti e pescatori dal sud del subcontinente, dai territori tamil cui si accennava in precedenza. Poco tempo dopo l'isola conobbe una progressiva, profonda conversione al Buddhismo, iniziata con i missionari dell'imperatore indiano Ashoka che, nel terzo secolo avanti Cristo, vi inviò anche i suoi due figli: Mahinda e Sangamitta.
Come posso, mi muovo da Colombo per godermi un po’ di mare. Mi spingo quasi cento chilometri a sud, ad Hikkaduwa. Siamo fuori stagione. La località è quasi desertica e le accommodations sono a prezzi dimezzati. Il mare è turbolento, imprevedibile, a momenti decisamente rabbioso. Le onde possono intensificare notevolmente la propria violenza da un momento all’altro per poi acquietarsi un poco.
Può essere una situazione stimolante per fare surf che è, infatti, una delle attrazioni del posto.
Bisogna tuttavia fare attenzione alle barriere di scogli, a pochi metri dalla riva. La loro presenza, considerata la violenza delle onde, non è rassicurante. Mi sistemo al Lucky Dolphin per 4 notti. Il manager è piuttosto pressante. Cedo, un paio di sere, alle sue lusinghe di cena con gamberi di acqua dolce e, la seconda volta, con un enorme granchio. Nei giorni seguenti, tuttavia, sono di casa al Moon Beam Hotel, a 500 metri dal Lucky Dolphin. I prezzi sono molto simili ma la qualità del servizio non teme confronti. Mi sfizio, a pranzo, con un’ottima aragosta accompagnata, tra l’altro, da un insalata da cui emerge, gradevolissimo, il sapore di dolci spicchi di ananas.
A pomeriggio inoltrato, scambio due chiacchiere con l’affabile proprietario del Moon Beam Hotel davanti ad un bicchiere di Arrak. Il buio, nella veranda del ristorante, è rischiarato dalla calda luce delle candele, in affusolate lampade di vetro o in simil-zucche stile halloween (senza la peculiare eco macabra).
Il giorno dopo sono in spiaggia, al tramonto. Il mare è particolarmente irruento. Il moto delle onde è multi-direzionale. Si infrangono rumorosamente a riva dal largo ma, allo stesso tempo, dalla riva alcune onde si alzano verso il largo, non di rado scontrandosi con quelle che arrivano nella direzione opposta. Sembra poi esistano missili subacquei che corrano in lungo a pochi metri dalla riva per cui le acque si rialzano veloci, in orizzontale, emettendo sibili intensi e producendo tanta schiuma bianca spumeggiante. La spiaggia, alla mia destra, si sviluppa in buona parte in rettilineo per poi curvare dolcemente a sinistra, come raccogliendo il mare infuriato in un pacato e parziale abbraccio. È uno spettacolo fitto di coccheti e tanti banani, a pochi metri dalla sabbia ed il colore del cielo è meravigliosamente aranciato e raddensato dall’alto livello di umidità, dato dal prorompere selvaggio del mare. Una visione quasi irreale, quasi apocalittica, nel frastuono moderatamente assordante e pervasivo delle onde. Non si sente altro, seduti come dentro una grande arancia che contiene il verde, oramai scuro, dei coccheti e dei banani fino a che le prime luci fioche delle rade abitazioni iniziano ad essere più visibili per poi punteggiare, di bottoncini gialli, il buio di Hikkaduwa.
Il letto è enorme e comodissimo, al Lucky Dolphin; può quasi rivaleggiare con quelli che ho apprezzato nella sensuale Thailandia e non fa minimamente rimpiangerei tavolacci di Varanasi e di accommodations indiane che non siano costose.
È sormontato da un economico ma piacevole baldacchino di legno. Di giorno, sulla spiaggia, arrivano dimessi, semidisperati venditori di copriletto di seta (che faticano davvero a reggere il confronto con quelli che possono trovarsi nel nord dell’India), collanine, qualche sparuto massaggiatore. Si aggira anche un sordomuto, richiedendo soldi a mezzo di scritta su un quaderno.
Si sente, netta, la eco della profonda crisi economica, conseguente al conflitto etnico che ha insanguinato il paese per molti anni e che si è definitivamente (c’è da sperarlo, almeno) concluso da appena qualche mese. Anche a Colombo poveri e mendicanti non si fanno desiderare. Certo, non ci sono le legioni di diseredati che si possono trovare in India o le frotte di bambini storditi dalla colla di alcune strade di Kathmandu e, tuttavia, le condizioni di vita di molte persone, qui in Sri Lanka, rasentano la disperazione mentra la rupia srilankese è, praticamente, carta straccia.

Viveraltrimenti tornerà presto ad aggiornare i suoi lettori da altri itinerari sri-lankesi. Attendete dunque fiduciosi…