Quella che segue è un’intervista che Rossana Guidi, sociologa all’università di Pisa, mi ha fatto in un bel pomeriggio di luglio in un agriturismo poco distante da Orte (VT). Per me è stata un’occasione per rivivere alcuni passaggi cruciali del percorso che mi ha portato a scrivere i due testi Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia e Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo (cui ha recentemente fatto seguito l'ultima edizione: Comuni, comunità, ecovillaggi).
Per qualunque delucidazione rispetto agli ecovillaggi citati rimando al solito sito di viverealtrimenti.
Ringrazio naturalmente Rossana per l’opportunità che mi ha dato di raccontarmi.
Ringrazio naturalmente Rossana per l’opportunità che mi ha dato di raccontarmi.
Manuel, tu sei uno dei pochi studiosi in Italia che si occupano del tema degli ecovillaggi. Come ti è nata questa forma di interesse e da quanto tempo te ne occupi?
L’interesse mi è venuto intorno alla metà degli anni novanta, quando finii in Scozia con lo SCI (Servizio Civile Internazionale) per perfezionare il mio inglese malfermo. Mi ritrovai a fare volontariato in una comunità che si chiamava Gowambenck (non so se esiste ancora), assimilabile ad una comune fricchettona. Si stavano ristrutturando dei vecchi casali per creare gli alloggi della comune e, con l’occasione, entrai in contatto con una dimensione che in qualche modo avevo spesso sognato.
Volevi fare anche tu una comune?
Magari fare proprio una comune no, però ero affascinato dal fenomeno comunitario. Mi ricordo che a Gowambenck trovai tutti gli elementi che mi interessavano: una certa vicinanza alla cultura orientale -che già allora esercitava un richiamo su di me-, una bella immediatezza nei rapporti interpersonali, la natura, la presenza di animali, poi questa cultura fricchettona forte…mi ricordo le serate passate davanti al fuoco con alcuni comunitari che facevano i giocolieri o le canzoni dei Pogues suonate alla chitarra. Ricordo che, parlando con la fondatrice, le dissi: tutto quello che mi piace qui c’è e lei, Mary, ne fu particolarmente contenta. Credeva molto in questo progetto, in buona parte lo aveva finanziato di tasca propria.
Quando tornai in Italia, come ho scritto nel mio ultimo libro, avevo una certezza in più: avrei cercato altre comuni. Non subito in realtà perché ero all’Università, mi dovevo laureare ed avevo una relazione con una ragazza poco vicina a questo mondo. Se le parlavo di Gowambenck mi rispondeva: ecco, i fricchettoni, ma è mai possibile che non riesci ad apprezzare gente normale?! La cosa dunque finì, per un certo periodo, in cantina ma presto l’interesse si riaffacciò. In particolare quando studiavo sociologia della religione, avvicinandomi al movimento di Osho Rajneesh che aveva, tra le altre cose, una concezione peculiarmente comunitaria. E’ stato scritto un libro con alcuni suoi discorsi che si intitola La grande sfida. Il testamento spirituale di un profeta del nostro tempo. Quel libro è stato per me una rivelazione, nel momento in cui leggevo che lui ipotizzava un mondo dove non ci fossero più nazioni ma tante comuni cooperanti, nella grande libertà. L’istanza del superamento dello stato e della famiglia nelle comuni l’avevo già trovata ed apprezzata nel pensiero anarchico. Gli ambienti anarchici che avevo frequentato, però, mi avevano deluso. Non mi interessava l’aspetto conflittuale dell’anarchismo che purtroppo ho respirato ovunque in ambito anarchico. Mi interessava l’anarchismo romantico e propositivo di cui non riuscivo a trovare tracce concrete. Ricordo che, mentre leggevo il libro di Osho, mi illuminai all’idea che la grande sfida che lui proponeva potesse rappresentare una sorta di chiusura del cerchio in cui trovavo realizzate, almeno in teoria, le mie istanze “di crescita integrale” con le mie frustrate istanze utopiche.
Sì, direi che Osho, stando a quello che tu dici, può essere tranquillamente definito di tendenza anarchica
Sì, certo, anche se gli anarchici movimentisti non credo lo avrebbero mai accettato come “teorico”. Quando ho provato a parlarne con qualcuno di loro ho suscitato reazioni a dir poco indignate. Io credo ci sia uno scatto da fare, oggi, rispetto alla stessa cultura anarchica. Già quella degli anni ’70 trovo che sia vecchia. Il mondo è in continua evoluzione, negli ultimi decenni in maniera decisamente accelerata. Bisogna tenere il passo altrimenti si rischia una “letale” fossilizzazione. Io oggi non mi definisco più anarchico, soprattutto da quando il termine viene spesso associato alla feccia del Black Block. Le definizioni oramai mi stanno strette, fanno parte, a mio vedere, di un retaggio ideologico che oggi è antistorico. Per riprendere il monito di Oberto Airaudi, fondatore dell’esperienza comunitaria di Damanhur, “bisogna fare”, senza perdere tempo a definire e definirsi più dello stretto necessario. E vediamo bene che c’è molto da fare dunque masturbarsi troppo il cervello rischia di diventare un lusso insensato. Facendo marcia indietro, a suo tempo mi definivo (ancora non ero così insofferente con le definizioni) un “anarchico spiritualista”, avevo una visione “mistica” dell’anarchia e, come ti ho detto, mi interessava tutta la parte propositiva (senz’altro ancora attuale, in certa misura), dal “migliore” Bakunin in avanti: l’ipotesi di superare lo stato in una confederazione di comunità autogestite, realizzando un modello sociale più a misura d’uomo. L’incontro con Rajneesh e la mia prima esperienza in India (nel ‘98 sono stato due mesi e mezzo nel suo Ashram di Poona, poco distante da Bombay), rafforzò la mia vocazione anarchica che, in quel momento, ardeva un po’ sotto la cenere mentre l’avevo coltivata soprattutto studiando a Trento dal ’92 al ’94.
Cosa studiavi a Trento?
Sociologia. A Trento vivevamo in una specie di comune ed ho visto subito gli aspetti negativi: le famose cataste di piatti che nessuno lavava. Poi ho deciso di rilanciare, come ti dicevo soprattutto in corrispondenza con l’esperienza con Rajneesh. Nel ’99 mi laureai in sociologia con una tesi sul campo su Rajneesh ed il suo movimento.
Dopo la laurea finalmente mi sono messo sulle tracce di una comunità di cui sentivo parlare da quando vivevo a Trento: la Confederazione dei Villaggi degli Elfi.
Andai dagli Elfi nel ’99 e, ricordo, fu una folgorazione, come credo emerga chiaramente dal mio primo libro Comuni, comunita’ ed ecovillaggi in Italia.
Frequentando gli Elfi mi si aprì un mondo e mi avvicinai anche al CIR -Corrispondenze ed informazioni rurali-, un bollettino che veniva fatto allora, attraverso il quale contattai un’associazione anarchica di tendenza eco-comunitaria laziale: A.L.I.A.S. -Associazione di Libera Iniziativa Autogestita e Solidale-. L’associazione aveva un pezzo di terra nell’entroterra di Tivoli, in provincia di Roma. Andai lì nell’estate del ’99, con l’intenzione di collaborare a costruire alcuni edifici tradizionali (lestre) con materiale locale. Il resoconto di quell’esperienza, su Comuni, comunita’ ed ecovillaggi in Italia, ha fatto ridere migliaia di persone. Fu del tutto fallimentare. Di ritorno a Roma, mi sono iscritto ad un corso di giardinaggio alla Regione per imparare a lavorare la terra, a fare l’orto -avevo il rifiuto della carta stampata in quel periodo, fresco di laurea- avvicinandomi alla natura con la prospettiva di andare a vivere in campagna con la fidanzata (parliamo della fine del ’99 e dei primi mesi del 2000).
Poi ebbi un momento di crisi psico-fisica, mi resi conto che stavo andando in una direzione del tutto sbagliata e che dovevo rifare la pace con i libri, miei compagni di viaggio più del tosaerba e del decespugliatore. Decisi dunque di rientrare all’università e di fare un corso di perfezionamento in Movimenti e Istanze Religiose con la professoressa Maria Immacolata Macioti, con la quale mi ero laureato, allieva di Franco Ferrarotti. Il recupero della dimensione intellettuale, tuttavia, non andò a scapito della passione per la campagna, per gli Elfi, da cui sarei più volte tornato e la stessa dimensione comunitaria.
Iniziai dunque a fare ricerche di vario genere per conto di un privato, titolare di una scuola di conoscenza (con il quale collaboro ancora oggi) oltre a fare le bancarelle vendendo miele e prodotti biologici. Avevo un socio, vicino anche lui al mondo anarchico, che conosceva Angelo Quattrocchi della casa editrice Malatempora. Angelo aveva bisogno di qualcuno che gli vendesse i libri on the road e propose la cosa al mio socio che la propose anche a me. Mi sembrava una buona idea e dunque arricchimmo la nostra bancarella con i testi della Malatempora.
Angelo Quattrocchi è lo scrittore che ha fatto l’introduzione al tuo libro ed è studioso dei movimenti di Genova, vero?
Esatto. Lo andammo a trovare a casa sua (sede anche della casa editrice) a Trastevere, dove faceva il cocktail party ogni mercoledì sulla scia dei cocktail party di Einaudi e trovammo un buon accordo: ci dava il 50% su ogni copia venduta. Si creò dunque una collaborazione e, presto, un’amicizia. Allo stesso tempo con Bruno, il mio socio, eravamo legati al Gruppo Vegetariano Armando D’Elia di Roma. Vendevamo prodotti biologici e libri durante gli incontri settimanali. Ad un certo momento, trovando che l’ambiente del Gruppo Vegetariano Armando D’Elia fosse costituito in buona parte da eccentrici veri ed avendo fatto delle esperienze abbastanza forti con alcuni di loro (ad esempio un eremita protocristiano che viveva in una grotta in una frazione poco distante da Roma, con il quale feci un’intensa esperienza di digiuno esseno), pensai di raccontare tutto in libro.
Mi proposi dunque ad Angelo per scrivere un testo, un po’ sui generis, sul vegetarianesimo e lui accettò.
Il testo sul vegetarianesimo diede la stura alla mia prima pubblicazione sulle comunità intenzionali e gli ecovillaggi: Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia che avrebbe avuto un buon successo, difatti oggi è praticamente esaurito (a breve sarà una rarità da collezionisti, un po’ come il rotolo di carta per telescrivente su cui Jack Kerouac scrisse On the road…).
Questo libro è unico nel suo genere, per ora in Italia, se non sbaglio, sei stato il primo a promuovere l’argomento…
Esattamente. Questo poi mi ha portato alla collaborazione con il mensile ecologico AAM Terra Nuova il cui direttore, Mimmo Tringale, è anche presidente della RIVE (Rete Italiana Villaggi Ecologici). Per i 3 o 4 anni successivi ho girato tanti ecovillaggi (non solo in Italia, a quel punto avevo allargato lo spettro anche ad alcune importanti realtà estere: Findhorn Foundation, in Scozia, Christiania in Danimarca ed Auroville in India per citare le più importanti) scrivendo articoli per AAM Terra Nuova e puntando ad una seconda edizione di Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia. Decisi di pubblicarlo con la casa editrice del giornale dato che è da sempre il più vicino alla realtà comunitaria italiana e, in misura minore, estera. Con Mimmo, tuttavia, stavo avendo alcune difficoltà. Umanamente mi trovo bene con Angelo e meno con Mimmo, questo è un dato di fatto dunque cosa succede? Una sera ad un cocktail party semideserto in casa Quattrocchi -eravamo io, lui ed un’altra persona- tutti un po’ ciucchi dissi ad Angelotto (come lo chiamo affettuosamente io): sai che c’è, se tornassi indietro il libro lo rifarei con la Malatempora; con AAM stiamo andando davvero troppo alle lunghe e mi sto stancando. Io, tra l’altro, all’inizio avevo proposto ad Angelo di fare una co-edizione con AAM e lui (anche se non se lo ricorda) non ne volle sapere. Il progetto partì dunque integralmente con Mimmo ma quella sera, complice il vino di troppo, iniziammo, con Angelo, a meditare di rifare un saggio insieme. Chiaro che l’indomani, a mente lucida, ho pensato che non si poteva stare con un piede in due barche e che doveva finire lì. Il lavoro continua dunque con Mimmo ma avanza in maniera esasperantemente lenta. Arriva, un certo giorno, una telefonata di Angelo e mi dice: “bè però siete degli stronzi, questa cosa me l’ero inventata io. Io ho aperto la strada con il primo libro ed ora voi ne godete i frutti con il secondo”. Dire che l’abbia inventata lui mi sembra azzardato. Direi che l’abbiamo inventata insieme per non fare a gara di stupidi personalismi. Ricordo che quando eravamo in chiusura del libro Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, vedendoci dall’esterno era bello trovare il fricchettone maturo ed il giovane inquieto che, insieme, stavano realizzando qualcosa che, nel suo piccolo, avrebbe fatto storia, infatti eccoci qua che ne stiamo parlando.
Dunque dopo la telefonata un po’ furente di Angelo chiamo Mimmo, gli dico che qualche settimana prima con Angelo c’eravamo fatti un bicchiere di troppo ed era venuta fuori questa questione. Gli propongo di trovare un compromesso, nel momento in cui siamo noi tre i soli che ci occupiamo, a livello divulgativo, di comunità intenzionali ed ecovillaggi in Italia.
Mimmo in principio è, comprensibilmente, perplesso poi mi dice: se vuoi, con Angelo fate la seconda edizione di Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia ed io e te possiamo pubblicare Ecovillaggi d’Italia. Essere conteso tra due editori e l’idea di scrivere due libri stuzzica la mia vanità. Telefono ad Angelo e gli dico: io e te possiamo fare la seconda edizione di Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, fregatene di quello che facciamo io e Mimmo. Angelo mi risponde: sei la solita troia! Ma accetta contento. Dopo poco sarei partito per l’India, dove vivo la maggior parte del mio tempo in questi anni, iniziando a lavorare a due libri contemporaneamente. Di ritorno in Italia, al momento di firmare il contratto con Mimmo, lui ci ripensa perchè considera che due libri sullo stesso argomento possano farsi concorrenza tra di loro (ci si poteva pensare anche un tantinello prima…). La cosa si sta seriamente complicando quando Angelo trova una buona soluzione di co-edizione. In poco tempo riesco a fare di due libri un libro solo, senz’altro più completo del primo, di cui siamo tutti soddisfatti: Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo.
Nel tuo primo libro ho visto che ci sono degli Ecovillaggi iscritti alla R.I.V.E. e altri che non vi sono iscritti. Tu come hai fatto a sapere dell’esistenza di tutte le esperienze presenti sul territorio italiano? Hai consultato un archivio, oppure col passa parola sei riuscito a creare una mappa anche di quelle non segnalate?
Il primo lavoro che ho fatto è stato proprio un lavoro di monitoraggio. Il primo libro è del 2003 e oggi, dopo cinque anni, il monitoraggio non è ancora finito perché certe realtà non si raccontano. Adesso si possono trovare su alcuni network in internet. Comunque, per rispondere alla tua domanda, in principio è stata soprattutto una ricerca attraverso il passa parola.
Quindi ci sta che l’elenco che proponi non sia così completo. Ci potrebbe essere un margine di errore…
Sì, potrebbe essere incompleto. In realtà ci sono delle esperienze che mi sono state segnalate e che io ancora non ho considerato neanche nel secondo libro. Di questo secondo libro sto spingendo al massimo la distribuzione. Proprio stamattina ne ho spedito 20 copie alla comunità del Forteto che ha un gran bel punto-vendita. Presto andrà rifatto e certe lacune potranno essere colmate.
Nel tuo secondo libro hai scritto che un ecovillaggio è una comunità intenzionale, ma non tutte le comunità intenzionali sono ecovillaggi. Puoi dire qualcosa al riguardo?
Sì, una comunità intenzionale è generalmente costituita da un gruppo di persone che decidono di vivere insieme avendo un ideale o un obiettivo comune e con diversi margini di condivisione.
L’ecovillaggio è senz’altro una comunità intenzionale, con il valore aggiunto di una particolare attenzione alla “sostenibilità ecologica, spirituale, socioculturale ed economica”, per scomodare la definizione adottata dalla RIVE, intendendo per sostenibilità l’attitudine a soddisfare i propri bisogni senza penalizzare, anzi agevolando, le generazioni che seguono.
Quindi non considerare le comunità intenzionali religiose e studiare solo gli ecovillaggi è limitativo?
A mio modo di vedere sì. In generale credo sia saggio considerare il fenomeno comunitario in una prospettiva ampia altrimenti si rischia di ricadere nei limiti dell’ideologismo. Come ho scritto nel mio secondo libro, uno dei rischi della scelta di vita comunitaria può essere una sorta di “deriva settaria”, di tendenziale chiusura al resto del mondo (soprattutto nel momento in cui viene enfatizzata la propria autosufficienza, la propria autonomia integrale). Credo che un buon antidoto a questo rischio sia proprio mantenere gli orizzonti ampi e lavorare molto attraverso il networking. Il rischio di ripiegamento su se stessi è congenito all’essere umano. Credo uno psicologo lo possa spiegare facilmente. Ricordo il conflitto segnalato in psicologia sociale tra stabilità ed apertura. La stabilità comporta spesso una “stasi”, un accomodarsi in una determinata condizione. Salvaguardare la propria stabilità pone spesso in conflitto con le istanze di apertura, di conoscenza ed accoglienza di altro, altre persone, altre idee. Un eccesso di apertura può difatti recare il rischio di destabilizzazione della condizione acquisita. Allo stesso tempo, un’eccessiva attenzione alla stabilità rischia, nella peggiore delle ipotesi, di portare alla “cancrena”. Guarda, se mi passi un paragone per certi versi un po’ arbitrario, un rischio simile lo sto riscontrando in India con gli aspiranti asceti. La tradizione ascetica indiana (ed io vivo in una città tra le piu’ ascetiche dell’India: Varanasi) può essere anche vissuta nella prospettiva di un insegnamento per cui ciascuno può agevolmente bastare a se stesso e, nel momento in cui ci si libera dal bisogno e dal desiderio dell’altro, poggiando sulla propria riscoperta natura divina, si è veramente liberi. Io trovo sia semplicemente una bestialità. Conosco diversi aspiranti asceti che mi sembra stiano diventando sempre meno tolleranti, sempre più assolutisti, coltivando una natura pericolosamente solipsistica che rischia di portarli più ad un arido rincretinimento che ad una liberazione spirituale. L’uomo -e qui rientriamo nell’importanza dell’esperienza comunitaria- ha profondamente bisogno dell’altro per non dimenticare la contingenza, la natura relativa dei propri pensieri, delle proprie convinzioni. In questo è straordinario il testo di Martin Buber Ich und du in cui l’intellettuale chassidico e kibbutzista argomenta che un’autentica crescita spirituale può avvenire meglio in un profondo, per quanto complesso e a volte doloroso, rapporto con gli altri che non in solitudine, contestando in questo modo il forse frainteso ideale ascetico. Dico forse frainteso perchè la persona realmente realizzata spiritualmente vive in profonda comunione con gli altri; è colui che usa l’ascesi come alibi per vivere le proprie rigidità ed intolleranze, la propria incapacità a mediare che la fraintende sostenendo superbamente di non aver bisogno di nessuno. Ora, come ti dicevo, i rischi di chiusura esistono anche, per quello che ho potuto vedere, nell’ambiente comunitario, nel momento in cui le comunità nascono come piccoli laboratori di realizzazione di “un mondo migliore”. Può subentrare un senso di elezione, di superiorità, di pretesa indipendenza dal resto dei poveri mortali che ancora, poverini, vivono una vita normale. La superbia è annoverato, non a caso, tra i vizi capitali; è un’attitudine da cui la saggezza transculturale ha sempre messo in guardia. Dunque nelle comunità intenzionali e negli ecovillaggi credo si debba stare attenti ad evitare che piuttosto che rincoglionire da soli (come gli aspiranti asceti), si rincoglionisca in 7, in 20, in 30 o anche di più ma, ahimè, sempre si rincoglionisca! Credo, in una parola, non si debba mai perdere il dialogo con il mondo, il miserrimo, sfasciatissimo, vizioso, corrotto e straziato (e tuttavia meraviglioso) mondo ordinario pur facendo le proprie esperienze di crescita il più possibile integrale come “aspiranti asceti” o “aspiranti comunitari” o, piu’ semplicemente, “aspiranti esseri compiutamente umani”. Ritengo dunque sano un approccio il meno possibile ideologico, il meno possibile escludente, considerando con una certa benevolenza le diverse esperienze comunitarie senza troppi steccati, valorizzando il filo rosso che unisce realtà pur diversissime: la scelta, l’intenzione di essere comunità. Portando ora il discorso ad un livello più concreto, ci sono ecovillaggi di matrice espressamente religiosa ed altri no. Per esempio Damanhur è una comunità intenzionale sostenibile, non religiosa ma spirituale. Il fondatore gestiva un centro esoterico a Torino e ha elaborato diversi elementi di un percorso che oggi può essere definito via horusiana, un percorso che io chiamerei gnostico-esoterico (anche se loro sul fronte delle definizioni fanno un po’ i difficili, forse a ragione, dunque quanto ho appena detto è un mio punto di vista che, tuttavia, credo possa contribuire a dare un’idea di massima). Questo detto, non è che perché non è solo ed unicamente una realtà ecologista che si può dire che Damanhur non sia un ecovillaggio. E’ un ecovillaggio perché è una realtà indiscutibilmente sostenibile a prescindere dal fatto che abbia anche una matrice spirituale, gnostica o come meglio preferiscono loro. Prendendo un altro esempio, Torri superiore è un ecovillaggio tendenzialmente laico, in cui la componente religiosa è sostanzialmente assente e quella spirituale è tendenzialmente privata mentre l’elemento centrale, fondante è la vocazione ecologica.
MCF (Mondo di Comunità e Famiglia) è invece una rete di comunità intenzionali non sempre del tutto in linea con i principi ecologici, perchè talora viene data più importanza alla solidarietà, all’accoglienza di persone problematiche o ad una profonda crescita comune in aderenza ai migliori ideali del Vangelo (dunque può definirsi un'esperienza comunitaria di matrice religiosa). Allo stesso tempo va detto che Mondo di Comunità e Famiglia sta cercando di evolvere anche sul fronte della sostenibilità (si stanno organizzando per utilizzare sempre più energie rinnovabili). Il movimento ha diverse realtà comunitarie, sparse soprattutto in nord-Italia ma ultimamente anche nel centro-sud; alcune sono condomini solidali, a volte in aree periferiche di grandi città come Milano, altre sono casali in campagna, vecchie ville ristrutturate con diversi ettari di terreno dove fanno agricoltura biologica. Sono stato ultimamente a Berzano, una comunità del movimento dove vivono anche i fondatori: Bruno Volpi e l’instancabile moglie Enrica. Tra le altre cose ho scoperto che MCF, per statuto, è aconfessionale e che dunque può essere quasi arbitrario definirla sic et sempliciter una realtà di matrice cattolica (smentendo la reputazione che si e' fatta sino ad oggi). In questa esperienza comunitaria, centrale è la famiglia e dunque si vorrebbero coinvolgere anche a famiglie di un’altra religione, ad esempio una famiglia di marocchini (musulmani) o una famiglia di buddisti.
Tutte le realtà che hai visitato, si sono formate per opporsi al sistema capitalistico? Sono veramente come le definisce Miller delle “isole di alternativa in un mare capitalistico”? Hanno tutte le comunità, comprese quelle strettamente religiose una matrice comune di anticapitalismo e di anticonsumismo?
Secondo me no, perché è un universo essenzialmente eterogeneo. Ci sono alcune realtà che potremmo chiamare “antagoniste”. Un esempio classico, al riguardo, è la comune di Christiania alla periferia di Copenaghen. In Italia possiamo citare la comune anarchica di Urupia, in Puglia o gli stessi Elfi, per accennare alle esperienze più radicali. Poi ci sono realtà come Torri Superiore, la Comune di Bagnaia che sicuramente hanno una vocazione anti-capitalista, pur essendo meno “barricadere”. Merita menzione, poi, una realtà come il Forteto che, pur essendo particolarmente impegnata (ad esempio su tematiche quali l’affido di minori in difficoltà o nell’ambito della scuola) e pur a fronte di una dimensione comunitaria a maglie “relativamente strette”, è perfettamente integrata nel sistema di mercato. Riuscire a far convivere i due aspetti trovo sia un buon punto di forza di questa esperienza.
Ti ho fatto appena alcuni esempi, se ne potrebbero fare molti altri.
Per prendere le varie decisioni le comuni usano il metodo del consenso, un metodo che permette a ciascun membro di essere soggetto attivo nella realtà in cui vive. Riescono veramente a portare avanti questa democrazia diretta o al loro interno si ricreano quelle subdole dinamiche di potere per cui se qualcuno ha migliori capacità oratorie può imporsi meglio sugli altri?
Il metodo del consenso è una sorta di scienza ormai. Si sa che oltre un certo numero di persone (circa 200) non funziona più in maniera ottimale. Su questo terreno hanno avuto modo di specializzarsi nella comunità scozzese di Findhorn Foundation. Personalmente ho partecipato a diversi cerchi degli elfi (per quanto il cerchio elfico è un metodo abbastanza originale che non coincide integralmente con il metodo del consenso, pur essendo vicino). Certo, per quanto si voglia essere orizzontali, la personalità, il carisma, l’oratoria non possono non incidere. Formalmente non esistono capi e tuttavia credo ci sia, necessariamente, una selezione di leadership per cui chi parla meglio, chi ha più esperienza comunitaria o più carisma finisce per avere maggiore voce in capitolo. Per dirtela in breve, quando gli elfi si riuniscono in cerchio passandosi il bastone della parola, quel che dice Mario Cecchi -la figura più carismatica, generalmente il rappresentante di tutto il movimento- non è considerato alla stessa stregua di quello che dice l’ultimo arrivato. E’ anche giusto che sia così, giusto nella misura in cui è del tutto fisiologico. L’anarchico Michele Bakunin sosteneva che l’autogestione è un buon antidoto contro la cristallizzazione del potere ma anche che, nel suo ambito, il potere personale non può non avere modo di emergere. Lui stesso era trentatreesimo grado di massoneria.
Di fronte a queste dinamiche di potere che mi hai descritto, qual è invece una prospettiva reale di uguaglianza all’interno degli ecovillaggi? C’è qualche aspetto che migliora realmente la qualità della vita dell’individuo?
Secondo me l’uguaglianza sta nelle pari opportunità che vengono molto spesso offerte nelle esperienze comunitarie. La migliore qualità della vita credo sia data dai contesti generalmente naturali e dall’abbattimento di molti costi. Fuggire individualmente (o con appena la propria famiglia) in campagna, oggi, non è più semplice come poteva esserlo ai tempi del romanzo Due di due di Andrea de Carlo, quando un fazzoletto di terra con uno o più ruderi, in Umbria o Toscana, poteva ancora avere un prezzo ragionevole. In gruppo le spese si possono ammortizzare meglio e non solo quelle iniziali. In molte esperienze comunitarie, difatti, sono oggetto di condivisione anche le macchine, gli elettrodomestici, i computers eccetera. Con l’impoverimento progressivo anche dei cosiddetti “ceti medi” cui si sta assistendo da alcuni anni a questa parte, non è cosa da poco.
Non va dimenticato che molto spesso si condivide, in diversi modi, anche l’educazione dei figli ed anche questo migliora la qualità della vita degli adulti, nel momento in cui alcuni oneri, alcune responsabilità, sono distribuiti.
I rapporti umani in un contesto comunitario, poi, finiscono per essere più profondi ed autentici e questo può essere un altro fattore di miglioramento della qualità della vita, se consideriamo la solitudine angosciante di molte periferie metropolitane o dei quartieri-dormitorio.
Quest’ultima, tuttavia, può anche essere un’arma a doppio taglio. Inevitabilmente sorgono conflitti e non sempre i comunitari sono in grado di gestirli al meglio.
Un dato non proprio confortante è che circa il 90% delle esperienze comunitarie si arenano, falliscono.
Oggi, rispetto alle esperienze degli anni ’60 e ’70, si sta delineando una scienza della sostenibilità, della decisionalità orizzontale, della permacultura, dei metodi pedagogici alternativi, insomma di tutti quegli aspetti che possono interessare chi è coinvolto in un percorso comunitario. L’approccio è dunque meno improvvisato, meno spontaneista e, in virtù di questo, credo ci si possa aspettare dei buoni miglioramenti.
Quali criteri e quale metodologia hai utilizzato per analizzare le varie realtà?
In genere mi avvalgo del metodo storico comparativo. Per me è molto importante il background storico, il percorso che le diverse realtà di cui scrivo hanno avuto e lo spirito che avevano in principio ed hanno, nel tempo, maturato. Naturalmente gli elementi più interessanti su cui devo soffermarmi sono la decisionalità, gli accorgimenti ecologici, le modalità di gestione dei minori, l’autosufficienza alimentare ed energetica, l’organizzazione economica -se sono comunità a maglie strette (quindi con una cassa comune dove tutto è condiviso come possono essere per esempio Bagnaia, Urupia e il Forteto) o a maglie più larghe (come può essere ad esempio Torri Superiore o altre esperienze comunitarie)-.
Nel mio ultimo libro, in fondo alla descrizione di ogni comunità intenzionale ed ecovillaggio, ho inserito una scheda di sintesi in cui ne presento i dati essenziali. Ho anche considerato altre variabili, pensando a chi voglia andare in visita in una di queste realtà o stia coltivando l’idea di vivere in una comunità intenzionale o in un ecovillaggio. Dunque ho fatto cenno, nella scheda di sintesi, alle abitudini dietetiche del nucleo comunitario (se sono ad esempio vegetariani o vegani o altro) ed alla disponibilità all’accoglienza di nuovi membri.
Le comunità intenzionali che hai visitato sono tendenzialmente aperte oppure hai avuto delle difficoltà di interazione?
Tendenzialmente sono aperte. Ci sono poi quelle un po’ più criptiche o più strutturate, magari con ospitalità a pagamento (per quanto sono spesso previste formule come lo scambio-lavoro). In linea di massima, comunque, sono realtà relativamente aperte. A volte può esserci un po’ di diffidenza perché hanno avuto delle brutte esperienze e dei brutti articoli sui giornali.
Quali sono le fonti che hai utilizzato per lo studio delle esperienze comunitarie? Ti sei riferito ad altri studi o sei partito da zero?
Ho letto alcuni testi di sociologia (ad esempio Lo specchio, la rosa ed il loto, di Mario Cardano, uno studio comparato sulla sacralità della natura in cui sono coinvolti gli Elfi e Damanhur), alcuni di case editrici anarchiche (ad esempio Laboratori di utopia, dell’Eleuthera di Milano), qualcosa della casa editrice Ananda per quel che riguarda la loro esperienza comunitaria, ispirata agli insegnamenti di Paramhansa Yogananda ed altro. Non sono partito proprio da zero ma certo la letteratura disponibile, oggi, non è tantissima anche se, soprattutto in lingua inglese, ci si può avvalere di diversi, buoni testi.
Lavori empirici quindi non sono stati fatti sugli ecovillaggi…
Molto pochi. Sono state fatte diverse tesi di laurea, ma lavori empirici, se si esclude il testo di Cardano, che sappia io no. Siamo un po’ dei pionieri, in Italia. All’estero sono sicuramente più avanti. Tra le altre cose esiste un gemellaggio tra alcune università private americane ed alcuni ecovillaggi, nell’ambito dei quali si seguono corsi (di permacultura, di problem solving ecc…) che poi vengono conteggiati come crediti formativi acquisiti.
Un’ultima domanda: nell’ultimo anno c’è stato un aumento di interesse sugli ecovillaggi rispetto a soli due anni fa quando ho iniziato la mia tesi di dottorato. Come spieghi questo spostamento di interesse da parte dell’opinione pubblica?
A mio modo di vedere le motivazioni sono da ricondursi al fatto che, come ho scritto nel mio ultimo libro, le metropoli sono progressivamente meno vivibili e c’è un bisogno di ritorno alla natura sempre più condiviso e profondo. Soldi, come sappiamo, ce ne sono sempre meno, dunque l’idea della comunità intenzionale e dell’ecovillaggio (considerato che vivere insieme costa meno) può anche essere considerata un indicatore della crisi generalizzata. Io sono tornato in Italia dopo un anno di vita in Asia e ti posso dire che ho trovato un paese profondamente lacerato. Sono arrivato a Milano e mi sono trattenuto 15 giorni in provincia di Brescia, a casa di amici. Ho toccato con mano la profonda esasperazione per il fatto di essere costretti a lavorare di più di quanto si lavorasse alcuni anni fa, guadagnando la metà, avendo un potere d’acquisto sempre più penalizzato ed un fisco sempre più vorace. Arrivando nel centro Italia ho visto che le cose non vanno meglio (a Roma impazzano le svendite perchè i commercianti sono disperati, hanno i magazzini pieni di roba che stanno facendo fatica a smaltire). Insomma, la crisi è profonda ed a fronte di questo le comunità intenzionali e gli ecovillaggi possono rappresentare un baluginio, un’ipotetica via di uscita. Il sogno di vivere in un ecovillaggio può dunque anche essere visto, ripeto, come un indicatore di questa crisi ma bisogna stare attenti perchè poi, quando ci si trova a vivere materialmente insieme, se non si è sufficientemente preparati possono essere dolori. Convivere è difficile tra amanti, tra persone sposate, con i genitori; insomma ci sono delle difficoltà innegabili. Questo non vuol dire che bisogna essere disfattisti, ci sono delle realtà che funzionano bene e l’idea di creare una “scienza della convivenza sociale a maglie più strette” è sicuramente il modo migliore per affrontare le problematiche inevitabili. Come suggeriva Mimmo Tringale nell’ultimo incontro della RIVE: piuttosto che avventurarsi nella creazione di nuovi ecovillaggi è bene, intanto, rafforzare le realtà già in essere, approfittando per fare esperienza ed evitare di compiere scelte avventate.