«Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude
strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una
pera di furia».
(Urlo, Allen Ginsberg, 1955-56)
Dopo i ripetuti salti spazio-temporali, ripartiamo dunque dall’America, per tornare presto in Europa ed in Italia.
Il germe dell’anarchismo sopravvisse sotto traccia, trasfigurandosi nella cultura della beat generation, nel movimento hippy e trasfigurandosi ancora.
La storia del beat è la storia dei suoi vulcanici protagonisti: «scrittori che fuggono dalle scrivanie per cercare nella vita un’ispirazione autentica» .
La storia di alloggi di fortuna, stipati di libri: abbaini, scantinati, soffitte dismesse.
Della City Lights Books, la casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, particolarmente ispirato dal film di Charlie Chaplin, con gli archivi e la corrispondenza in due scatole di scarpe.
Della “stanza di povertà monacale” di Allen Ginsberg a Parigi, di personaggi “praticamente irraggiungibili”. Scrive, al riguardo, Fernanda Pivano — la storica saggista della cultura radicale americana ed italiana (aveva, difatti, un debole anche per il nostro Fabrizio de Andrè) — :
«Per incontrarli ci si deve affidare al caso o aspettare ore sulla porta di casa loro che
rientrino a dormire, sempre con la possibilità che invece si siano fermati a dormire in casa di qualcun altro o che magari siano partiti per un altro continente.
Quando li si incontra, si entra di colpo nel giro della loro vita e ci si trova ad accompagnarli al caffè o dal medico, a vedere un tramonto o a cercare un amico scomparso da settimane». (Fernanda Pivano, Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 10)
Il beat ha rappresentato uno stile di vita ed una controcultura pacifista, anticonsumista, libertaria.
Un movimento esistenzialista ed utopico, individualista e profondamente impegnato, ribellista e venato di una spiritualità sostanzialmente nuova per l’Occidente, dunque dall’impatto shockante
Una ricerca romantica di totalità, di mistica, vagabonda purezza, della libertà in primis dal denaro, da cui la peculiare aura pauperista.
Dalle istanze beat avrebbe germogliato la magia degli anni ’60, momento in cui tantissimi giovani avrebbero adottato «i blue-jeans dei mandriani o cow-boys e i sandali francescani, […] esempio indimenticato di povertà volontaria» .
Il miracolo economico, del resto, imperversava, banalizzava ed inflaccidiva mentre l’esigenza di allentare la morsa del consumismo si faceva, in diversi contesti, palpabile.
Nel lievitare del benessere prosperavano, tra i giovani, i cosiddetti “valori post-materialisti”.
Cresceva, in altre parole, la domanda di autodeterminazione, di ritorno ad una vita semplice, libera e naturale, di una conoscenza “non istituzionale” e di parità tra i sessi.
I ragazzi avrebbero iniziato a portare i capelli lunghi e le ragazze i pantaloni per affermare l’unisex.
Gli anni sessanta avrebbero assistito a quella metamorfosi per cui «i silenziosi, introversi, vagamente torvi beat [sarebbero diventati] i clamorosi, sgargianti, estatici hippies» .
Con un po’ di ritardo, le istanze beat ed hippy avrebbero raggiunto il nostro paese.
Intorno alla metà degli anni ‘60 iniziano a palesarsi le primi insofferenze giovanili.
Aumentano le fughe da casa degli adolescenti, si inizia a delineare un serio tentativo controculturale come via di fuga dalla logica delle “3 M” (moglie-mestiere-macchina).
Vengono valorizzati il misticismo e l’uso di droghe che espandano la coscienza ed iniziano a delinearsi, sull’esempio delle comuni hippy americane, ipotesi alternative alla famiglia nucleare classica.
Si sviluppa presto, in Italia, il desiderio di realizzare comunità beat.
Meglio: comuni.
Il concetto stesso di comunità viene trasfigurato dal desiderio di una maggiore “promiscuità”, di far cadere qualunque genere di barriera tra gli individui.
Il primo clamoroso esperimento di comune beat (o il primo tentativo di comune urbana) inizia il primo Maggio ‘67 in via Ripamonti, a Milano.
La rivista Mondo Beat affitta regolarmente un’area di 6000 metri quadri di terreno, munita di fosse batteriologiche.
Vengono montate circa 30 tende.
L’esperimento crea scandalo — la stampa lo qualifica come “Barbonia City”, “immorale tendopoli degli zazzeruti”, “squallido bivacco”, “inconcepibile agglomerato di sporcizia fisica e morale sorto alla periferia” (Corriere della sera, 9/6/67) ― e dunque non ha vita particolarmente lunga. Il 12 Giugno, dopo poco più di un mese, ha luogo uno “storico ripulisti”.
All’alba le tende vengono spazzate via, vengono smantellate le attrezzature ed i beat sono condotti in commissariato.
È un episodio disdicevole per i giovani ribelli che, tuttavia, non si danno per vinti. Il loro movimento spontaneista, via via più caleidoscopico, continua a marcare un proprio solco nell’Italia di quegli anni, malgrado subisca anche l’ostilità della “sinistra storica” e, successivamente, della stessa “ultrasinistra” che ne liquiderà la cultura come «problematica borghese, capace soltanto di allontanare i giovani dall’attività rivoluzionaria» .
Ha dunque inizio, per costoro, la stagione dell’esodo.
Viene presa la strada dell’Oriente e della lontana India ma anche strade italiane sterrate, verso frugali comuni agricole.
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