La prima volta che venni nell’India del nord, tra la fine del 2005 ed i primi mesi del 2006, sono stato al Magha Mela, un incontro annuale che rappresenta la versione ridotta del Kumbh Mela, ad Allahabad.
Io ed una mia amica italiana eravamo gli unici europei, a parte un ragazzo russo che girava con una telecamera enorme e fece una rapida intervista anche a noi. Buona parte degli indiani pervenuti erano di estrazione molto modesta. Arrivavano vestiti miseramente, a volte con valige chiuse con lo spago. Era pieno di sadhu che, a mio modo di vedere, rispondevano meglio alla definizione di barboni. Ricordavano anche gli asura della tradizione vedica, con gli occhi nero-ardenti spiritati, la polvere che ingrigiva loro i capelli e la barba incolti, i vestiti usurati dalla vita in strada.
Avevano approntato simil-tende di stracci e si scaldavano davanti a fuochi stentati. C’erano anche moltissimi mendicanti, spesse volte mutilati, sfigurati dalla lebbra o con gravi malattie invalidanti che li facevano camminare carponi. In alcuni frangenti, sedevano in lunghe file, ciascuno con la propria ciotola davanti. Ricordo distintamente il viso, lo sguardo di un’anziana signora che muoveva le mani senza dita per attrarre l’attenzione dei passanti. Le muoveva quasi al ritmo di un mantra che fuoriusciva da altoparlanti montati, con grovigli di fili, su pali di legno.
Aveva un’espressione difficile da comprendere e tantomeno da descrivere. Qualcosa che mi faceva pensare ad una sobria, quasi composta e pura disperazione. Terribilmente naturale, nella misura in cui era del tutto irrimediabile.
Quella donna occupava uno degli scalini più bassi nella configurazione di quella che io chiamo “la tragedia, indiana, dell’ineluttabilità” da cui pochi sono esenti, nel paese.
Era solo un volto, credo il più espressivo, in una fila di tanti altri che erano lì per il suo stesso motivo. Aggirandoci per il Sangam (l’area alla confluenza dei fiumi Gange e Yamuna), trovammo altri disperati disposti su carretti di legno. Erano integralmente coperti; fagotti umani da cui trapelavano scorci di visi, straziati, deformi. Non si capiva se costoro avessero o meno le gambe e le braccia. Erano lì, immobili sotto il sole, anche loro innanzi ad una ciotola, dando l’idea di aver trasceso qualunque sensibilità. Ricordo che mi ritrovai a pensare quanto fosse difficile considerarli in un qualunque modo: esseri umani, animali o anche, semplicemente, “cose”.
Più facile pensare che rappresentassero una minima fonte di reddito per intere famiglie, che tiravano avanti con quanto si posava, con compassione o raccapriccio, nelle loro ciotole.
Trovammo francamente poco di spirituale in quella visita.
Venimmo ospitati da una famiglia in una tenda. Una coppia con diversi figli e “parenti di corollario”. Il capofamiglia non si stancava di officiare rituali.
Ci siamo trattenuti a lungo innanzi all’offerta al fuoco di burro fuso, riso, incenso ed altri accessori di oblazione. A pomeriggio inoltrato abbiamo risalito quella distesa di miserabili che avanzavano con provata determinazione su strade sporche e terrose, all’echeggiare ossessivo di mantra da megafoni montati ancora su pali di legno, vagamente consapevoli di vivere una dimensione che aveva qualcosa di apocalittico, rappresentando quasi il set di un “incubo metafisico”.
Ancora ad Allahabad saremmo stati all’Ardha Kumbh Mela, nel 2007, con il mio amico Daddy, uno swami suo amico ed un professore di filosofia del linguaggio all’Università di Siena. Fu un’esperienza un po’ meno traumatica per quanto, mi ricordo, non ci fosse una bottiglia di acqua filtrata o minerale nel raggio di diversi chilometri ed io soffrivo di una bruciante arsura. Ero difatti in cura antibiotica per aver preso la giardia, un parassita intestinale. Quella volta, tuttavia, colsi più distintamente la sacralità dell’evento. Non restammo a dormire, l’assenza di acqua potabile e di servizi igienici decenti non era un particolare trascurabile. Saremmo tuttavia tornati, con Daddy ed avremmo dormito nel campo di Ananda Mai Ma, probabilmente la più importante santa dell’induismo del Novecento (di origine bengalese, era considerata la compagna spirituale di Paramahamsa Yogananda, autore del bestseller Autobiografia di uno yogi). Una notte memorabile per il freddo. Dormivamo su due materassi posti su uno strato di paglia. Potevamo utilizzare pesanti e vecchissime coperte leggermente odorose di muffa ed un po’ indurite dall’umidità. Malgrado ciò, si faceva davvero fatica a dormire per il freddo. Daddy meditò tutta la notte mentre io riuscii a prendere sonno rannicchiato, feto gigantesco, sotto una coperta e facendomi caldo con il mio stesso alito.
Colsi qualche frammento di Satcitananda (identificato nella cultura indiana tradizionale con uno stato di autentica percezione del reale, cui si partecipa in piena risonanza e di beatitudine) in quell’occasione per quanto venimmo presto sequestrati da un amico indiano di Daddy, un giovane bramino che non fece altro che farci girare e rigirare per il posto. Girare a vuoto e facemmo anche fatica a riuscire a fermarci a bere un chai. Colsi inoltre, maggiormente, lo spirito del gigantesco raduno. «Il Kumbh Mela», ci avrebbe detto lo swami amico di Daddy (dunque di comprovata serietà), «è un grande momento di condivisione di livelli, talora altissimi, di realizzazione spirituale». Esistono baba che vivono tutto il tempo in ritiro sull’Himalaya e partecipare al Kumbh Mela rappresenta il loro unico dialogo con il mondo. Scendono dai loro romitaggi per dispensare saggezza, per condividere il loro livello vibratorio, per officiare le loro puje, cantare o far cantare, dai discepoli, i loro mantra. Il risultato è un’arca di spiritualità dove non mancano, accanto alle inevitabili cialtronate, vette autentiche di purezza, stati di compiutezza umana prima che “divina”. Una sorta di Shamballa temporanea (la mitica capitale del sotterraneo regno di Agartha abitata da un alto numero di persone “illuminate”) in quanto luogo ad alta incidenza di individui notevolmente evoluti, pur nell’inevitabile disagio dell’India delle piccole cose.
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