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mercoledì 25 agosto 2010

La consapevolezza nella quarta via.

Di seguito un contributo molto interessante, per quanto impegnativo, dal'amico Alessandro Staiti, insegnante di Hatha Yoga ed esperto del maestro caucasico George I. Gurdjieff:

GEORGE I. GURDJIEFF E LA QUARTA VIA

“A coloro che si interessavano di queste cose, era noto da diversi anni che sarebbe arrivato in Occidente un maestro straordinario nella persona di un uomo che si reputava avesse avuto accesso a fonti di conoscenza negate ad ogni precedente esploratore occidentale” . Così scriveva John G. Bennett, personaggio di molteplice ingegno (ingegnere, filosofo, matematico, linguista e a sua volta ricercatore e insegnante di metodi per la conoscenza di se stessi, tra i quali quelli della Quarta Via), nel 1949, quando il suo maestro George Ivanovitch Gurdjieff, ormai ottantatreenne, era prossimo alla morte. “Che egli sia un uomo di grande conoscenza e anche di grandi poteri non può esser messo in dubbio da chiunque vi sia entrato in contatto personalmente. La sua evidente prontezza nel soccorrere i bisogni fisici e nondimeno quelli spirituali di coloro che si recano da lui per essere aiutati è sufficientemente comprovato dall’amore nei confronti dei suoi seguaci. La sua forza nelle più estreme sofferenze fisiche e la sua indifferenza verso le condizioni esterne della vita - spesso dolorose sotto ogni punto di vista - sono indicazioni di una forza interiore che comunque può essere percepita in ogni cosa che faccia. Più di questo non v’è bisogno di dire al momento presente”.
Nato nel Caucaso intorno al 1866 (nell’odierna Russia) da un’antica famiglia greca emigrata più di cento anni prima dalle colonie greche dell’Asia Minore, Gurdjieff ebbe l’opportunità di incontrare uomini straordinari dai quali acquisì la convinzione che qualcosa di vitale importanza mancava nella considerazione dell’uomo e del mondo nella letteratura e nella scienza europee. Era stato indirizzato agli studi di medicina e di teologia, ma l’insoddisfazione che provava per i limiti di quel tipo di educazione lo condusse a cercare altrove e per proprio conto. Con un gruppo di “cercatori della verità” viaggiò per molti anni attraverso l’Africa, l’Asia e l’Estremo Oriente, raggiungendo luoghi la cui esistenza è insospettabile anche per i più accurati esploratori. Dove realmente riuscì a spingersi non è possibile dirlo, e anche quel che lui stesso rivela nel volume “Incontri con Uomini Straordinari” è velato a tal punto da metafore che le vaghe coordinate geografiche risultano impenetrabili. Nel 1922 fondò l’Istituto per lo Sviluppo Armonioso dell’Uomo al Castello del Prieuré di Fontaineblau, nei pressi di Parigi. Qui il “lavoro su se stessi” da lui proposto prese una pianta stabile attirando, tra gli altri, diversi intellettuali e artisti europei. Fondò una vera e propria comunità indipendente con coltivazioni, animali, svariate attività lavorative e speciali classi di esercizi per la “trasformazione delle energie” che consistevano nei famosi “movimenti” tratti da danze sacre e in conferenze sugli aspetti teorici del “lavoro”. Nel 1924 organizzò in America un’altra branca dell’Istituto, dando per l’occasione una dimostrazione dei suoi “movimenti” accompagnati al pianoforte dalle musiche sacre elaborate assieme al musicista russo Thomas De Hartmann. Qui divennero suoi seguaci scrittori come Margareth Anderson , filosofi come Alfred Orage, che in quegli anni aveva fondato la rivista letteraria “The New Age”, architetti come Frank Lloyd-Wright. Al ritorno rimase gravemente ferito (ma miracolosamente vivo) in un terribile incidente d’auto che lo costrinse ad interrompere il lavoro pratico al Prieuré per intraprendere la trasmissione scritta delle sue idee, che avrebbe preso poi la forma di opere come “I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote” , il già citato “Incontri con Uomini Straordinari” e “La Vita Reale” . Durante la seconda guerra mondiale continuò ad insegnare con gravi difficoltà ricevendo gruppi di allievi nel suo appartamento di Rue des Colonels Rénard; poi improvvisamente nel 1948 decise di riprendere l’attività più estesa: purtroppo un anno dopo sarebbe stato fermato dalla morte.
In cosa consiste esattamente il lavoro della “Quarta Via” e perché questa scuola viene chiamata così? Una spiegazione subito a portata di mano è quella che lo stesso Ouspensky riporta per bocca di Gurdjieff nel suo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” .
Secondo Gurdjieff le “vie” tradizionalmente note per lo sviluppo spirituale erano inadatte alla vita dell’uomo occidentale, soprattutto perché partivano tutte dal passo più difficile: il completo ritiro dal mondo esterno, prevedendo inoltre molti altri tipi di rinuncia.
La prima via è la “via del Fachiro” (la n.1), e si esplicita sull’acquisizione della volontà e la trasformazione delle energie sulla base di intensi sacrifici fisici. Nel famoso linguaggio obiettivo, cui spesso Gurdjieff fece riferimento, alla via del Fachiro viene attribuito il numero 1 poiché tutto ciò che si basa su una realtà fisica è una realtà incontrovertibile. Una mano è una mano, non ha un opposto. Dualismo, invece, che caratterizza essenzialmente il linguaggio delle emozioni: la “Via del Monaco”, la n. 2, è centrata sulle contrapposizioni emozionali, la lotta tra il bene il male, tra peccato e santità, tipiche della vita di clausura. La “Via dello Yogi” (n.3 - poiché nel pensiero si realizza la tripartizione tesi-antitesi-sintesi, da non confondere con il ben noto indirizzo hegeliano), che ha il suo centro di gravità nello sviluppo di una “supercoscienza” attraverso tecniche mentali.
La Quarta Via si propone, invece, come un lavoro integrato sulla totalità dell’essere umano. “La quarta via non richiede che ci si ritiri dal mondo,” - dice Gurdjieff - “non esige la rinuncia a tutto ciò che formava la nostra vita. Essa comincia molto più lontano che non la via dello yogi. Ciò significa che bisogna essere preparati per impegnarsi nella quarta via e che questa preparazione deve essere acquisita nella vita ordinaria, essere molto seria e abbracciare parecchi aspetti differenti.” Un lavoro, dunque, che permette al comune cittadino occidentale di “vivere nel mondo ma non essere del mondo”, di continuare la normale vita quotidiana servendosene come strumento per risvegliare la propria consapevolezza e lavorare su se stesso. Per Gurdjieff il “buon padre di famiglia”, colui capace di essere responsabile di sé, dei propri cari e del proprio lavoro, è l’uomo n. 0, colui che può iniziare a lavorare su sé stesso nel modo più naturale: non ha strane idee sui corpi astrali, mentali e causali, non fa strane tecniche di respirazione (spesso realmente pericolose), non si vanta di interessarsi di dottrine esoteriche. La nostra educazione è incompleta: fisico, emozioni e intelletto sono insufficientemente educati e soprattutto non coordinati tra loro: in questo stato l’uomo non ha la possibilità di attingere al proprio vero potenziale ed è incapace di percepire l’unico vero tempo esistente: il Momento Presente.
L’esistenza è ridotta così ad una sorta di sonno ipnotico, tanto che si è inconsapevoli perfino nel cosiddetto stato di veglia. In questa situazione così disperata non solo vengono lasciate senza realizzazione le possibilità latenti insite nell’individuo, ma conseguentemente l’intera storia collettiva dell’umanità viene condotta a tragici traguardi di “sonno della coscienza” che si incarnano in guerre e distruzioni. In sostanza, come più tardi riuscirà a concretizzare lo stesso Bennett nei suoi insegnamenti che continuano fino ai nostri giorni, nonostante la sua scomparsa nel 1974, tre sono gli aspetti fondamentali che devono essere presi in considerazione: le funzioni, cioè l’agire, l’aspetto funzionale dell’essere umano nella sua accezione più generale; la volontà, la capacità di agire di propria iniziativa senza lasciarsi trasportare dalle condizioni esterne della vita; l’essere, quel “qualcosa” che può anche continuare a vivere dopo la morte del corpo fisico se durante l’esistenza terrena è stato espletato un appropriato lavoro di “ricordo di se stessi”: ci si è preoccupati, insomma, di sviluppare la consapevolezza. Ora, se un tale “lavoro” viene portato avanti con serietà sicuramente vi è un rafforzamento delle capacità individuali (dell’essere), e conseguentemente ne escono rafforzate sia la volontà che l’azione. Ma proprio a questo punto va esercitata la massima attenzione perché l’ego non smette mai di sedurre con astute pretese direttive, con smanie da protagonista. Dunque non è nella ipertrofia dell’ego che questo sviluppo di sé deve trovare sbocco. Invece, questo lavoro ha dato i suoi frutti più autentici quando fa scoprire al sincero ricercatore il segreto dell’abbandono: abbandono a ciò che viene percepito come una realtà “superiore”. La volontà personale, una volta rafforzata e organicamente sviluppata, deve lasciar andare ogni pretesa di seducente autorità, ogni rigida posizione e tecnica per abbandonarsi alla Volontà Sovrapersonale: quella che per mistici e religiosi è la volontà di Dio, per altri semplicemente la volontà, l’intelligenza che governa il Creato; e per altri ancora Etica Universale. In altre parole, solo entrando in contatto profondo con il proprio Sé reale è possibile riconoscere quei valori essenziali che sottendono l’amore proveniente dalla Vita.

ATTENZIONE E CONSAPEVOLEZZA NELLA QUARTA VIA

Le differenze e le innovazioni della Quarta Via rispetto, ad esempio, ad una disciplina alquanto nota in Occidente, come lo Yoga, non risiedono soltanto nell’assenza di esercizi di respirazione o nella non obbligatorietà della dieta vegetariana. Vi è qualcosa di più sottile ed è la capacità di dirigere e soprattutto dividere l’attenzione, aspetto totalmente sconosciuto allo Yoga, almeno a quei tipi di Yoga insegnati in Occidente. Questo, in realtà, è uno dei temi fondamentali della Quarta Via, una condizione indispensabile per lo sviluppo organico della consapevolezza.
Fin dall’antichità è apparso chiaro che gli animali si differenziano dalle piante per la loro capacità di movimento e di spostamento. E’ evidente, infatti, che una pianta non può andare a caccia per cercarsi nutrimento, né schivare un colpo, né nascondersi ai suoi persecutori. Allo stesso modo l’uomo probabilmente differisce dalla maggior parte degli altri animali per la sua capacità di “fare”, cioè di agire coscientemente. L’animale fa, ma non riflette su quanto sta facendo. Mangia, ma contemporaneamente non riesce ad astrarsi per dire a se stesso: “sto mangiando”. Si muove secondo quella forza meccanica/biologica imperiosa che definiamo istinto e che è alla base della legge della conservazione della vita. Prova piacere, dolore, gioisce e soffre come ogni essere vivente: ma, molto probabilmente, non può interrogarsi (o - immaginiamo almeno - l’articolazione della sua domanda sarà molto differente dalla nostra) sul perché tutto questa debba avvenire. Tutto avviene in lui, attraverso di lui. E sebbene, in qualche misura, qualcuno degli animali “superiori” possa dare l’impressione di una forma di consapevolezza, pur volendo supporre che lo sia, sarà di un grado piuttosto ridotto rispetto al potenziale insito nell’essere umano, o forse di tutt’altra qualità, tanto - ad esempio - da non poter dare vita a sistemi di comunicazione elaborati e complessi come il linguaggio verbale. Né, ancora, ad un vero e proprio sistema culturale. Parliamo di potenziale proprio perché secondo le autentiche vie per la conoscenza di se stessi, l’uomo comune non è veramente consapevole e deve lottare strenuamente contro le forze “meccaniche” (diceva Gurdjieff; biologiche, psicologiche, sociali, politiche, in altri termini “condizionamenti”, diremmo noi oggi) che governano la sua vita per conquistare la coscienza e con essa l’appellativo di “essere umano”; che non può definire, dunque, chi semplicemente conduce la propria esistenza nello “stato di veglia” comunemente inteso.
Gurdjieff spesso ripeteva che l’uomo moderno è costantemente addormentato - anche quando dice di essere sveglio - e che per poter vedere la Realtà deve svegliarsi dal proprio sonno meccanico. Ripete un concetto espresso anche dagli antichissimi insegnamenti dello Yoga, in altra forma. Lì si parla del “Velo di Maya”, uno strato di menzogna che è steso sugli occhi di colui che non è iniziato, che vive avvolto ancora in un mondo di percezioni soggettive confuse e staccate completamente dalla realtà obiettiva. Così anche nella tradizione cristiana: nel Vangelo spesso Gesù esorta gli apostoli a non dormire.
“L’uomo è colui che può «fare», ma tra gli uomini ordinari e anche tra quelli considerati straordinari non ce n’è uno che possa «fare». In essi tutto, dall’inizio alla fine, «si fa». Non c’è nulla che essi siano in grado di «fare».” - afferma G.I. Gurdjieff nel libro “Vedute sul mondo reale” . E continua: “L’uomo è un essere multiplo. Solitamente parlando di noi stessi diciamo «io» faccio questo, «io» penso quello, «io» voglio fare quell’altro. Ma è un errore. Questo «io» non esiste o, meglio, in ciascuno di noi ci sono centinaia, migliaia di piccoli «io». I nostri «io» sono contraddittori, ecco il motivo del nostro funzionamento disarmonico. Ordinariamente viviamo soltanto con un’infima parte delle nostre funzioni e della nostra forza, perché non ci rendiamo conto che siamo macchine e non conosciamo la natura e il funzionamento del nostro meccanismo. Noi siamo macchine. Siamo totalmente condizionati dalle circostanze esteriori. Tutte le nostre azioni seguono la linea di minor resistenza alla pressione delle circostanze esterne. Fatene l’esperienza: potete comandare le vostre emozioni? No. Potete cercare di sopprimerle o di cacciarne una con un’altra. Però voi non potete controllarle: al contrario esse controllano voi”.
Per Gurdjieff esistono ben quattro stati di coscienza diversi e possibili per l’uomo. L’uomo ordinario solitamente vive nei due stati di coscienza più bassi e i “due superiori gli sono inaccessibili e benché egli possa averne conoscenza a sprazzi, è incapace di comprenderli e li giudica dal punto di vista dei due stati di coscienza inferiori che gli sono abituali” . Continua Gurdjieff: “Il primo, il sonno, è lo stato passivo nel quale gli uomini trascorrono un terzo e sovente anche la metà della loro vita. Il secondo, nella quale passano l’altra metà della loro vita, è quello stato in cui camminano per le strade, scrivono libri, discutono soggetti sublimi, si occupano di politica, si ammazzano a vicenda: è uno stato che considerano attivo e chiamano «coscienza lucida» o «stato di veglia della coscienza». Queste espressioni di coscienza lucida o stato di veglia della coscienza sembrano essere state formulate per scherzo, specialmente se ci si rende conto di ciò che dovrebbe essere una «coscienza lucida» e di ciò che è in realtà lo stato nel quale l’uomo vive e agisce. Il terzo stato di coscienza è il ricordarsi di sé, o coscienza di se, coscienza del proprio essere. E’ generalmente ammesso che noi possediamo questo stato di coscienza o che possiamo averlo a volontà. La nostra scienza e la nostra filosofia non hanno visto che noi non possediamo questo stato di coscienza e che il nostro desiderio è incapace di crearlo in noi, per quanto ferma possa essere la nostra decisione. Il quarto stato di coscienza è la coscienza obiettiva. In questo stato di coscienza l’uomo può vedere le cose come sono. Talvolta, negli stati inferiori di coscienza, egli può avere dei barlumi di questa coscienza superiore. Le religioni di tutti i popoli contengono testimonianze sulla possibilità di tale stato di coscienza, che viene definito «illuminazione», o con altri differenti nomi, ma che non può essere descritto con le parole.” Questo breve passo, scritto alla fine degli anni Quaranta, offre spunti molto interessanti per comprendere quanto poco chiari siano ancora oggi i concetti di coscienza e consapevolezza, non solo al livello della scienza e della filosofia, ma della cultura più ordinaria e diffusa. Nessuno sa ancora ben definire cosa sia realmente la coscienza.
Questo aspetto della questione potrà essere compreso altrettanto approfonditamente se lo si osserva da una differente angolazione. Secondo un insegnamento molto antico, l’uomo può, più o meno facilmente, fare esperienza di almeno tre “correnti psichiche” o livelli dell’attenzione. La prima è quella che ci permette di concentrarci su ciò che stiamo facendo. E’ l’attenzione nel suo grado più elementare, ma comunque efficace. Il porre attenzione unicamente su ciò che stiamo facendo, astraendoci da tutto ciò che ci circonda, la vera e propria concentrazione. Esempio: pongo attenzione su ciò che sto scrivendo. La seconda corrente psichica è quella che può essere definita consapevolezza ordinaria: è l’uomo che si osserva durante l’azione. Possiamo dire piuttosto agilmente a noi stessi, mentre stiamo scrivendo, “io sto scrivendo”. La terza corrente psichica è invece quella facoltà ulteriore che ci permette di osservarci mentre osserviamo noi stessi fare una cosa. Per comprendere questa funzione, di cui normalmente non facciamo esperienza, possiamo ricorrere all’esempio dello stato di leggera ubriachezza, all’essere “brilli”. A molti sarà sicuramente capitato una volta nella vita di aver “alzato un po’ il gomito” e di essersi sentiti sdoppiati, a tal punto da avere la netta sensazione di essere gli spettatori di se stessi: è un inizio di osservazione di se stessi dall’esterno, come se “qualcun altro” in noi stesse assistendo a ciò che noi stessi stiamo facendo, dicendo o sentendo. E’ uno stato incredibilmente interessante - a partire dal fatto che ci pone di fronte all’ulteriore domanda: “chi sta osservando chi, o cosa?” - cui solitamente non viene data molta importanza (se non nel vecchio, abusato proverbio “in vino veritas”, significando che l’alcol disattiva la “protezione” dei freni inibitori e fa venire a galla le più intime pulsioni) o che viene ben presto superato dalla degradazione dell’attenzione provocata dall’alcol (in questo stato diversi soggetti, molto infastiditi dal fatto di osservarsi dall’esterno, cominciano a provare un forte senso di nausea), che mostra un’altra gradazione dell’attenzione e della nostra coscienza.
Questa terza corrente psichica, che mediante un accurato esercizio può essere attivata volontariamente e senza l’ausilio di droghe, viene definita «auto-osservazione» oppure «osservazione di sé». Esiste poi una quarta corrente psichica, con la quale possiamo avere consapevolezza contemporaneamente di noi stessi e dell’intero ambiente che ci circonda, e che si avvicina suggestivamente a quello stadio di coscienza che Gurdjieff definiva “coscienza obiettiva”. Ci fermiamo qui soltanto per comodità, per restare nel concreto, cioè più o meno in un campo in cui con un poco di astrazione ci viene agevole comprendere ciò di cui stiamo parlando. Ma in realtà, sempre secondo questi antichi insegnamenti, sembra proprio che i vari gradi di coscienza siano un po’ come le famose matrioske, le bambole russe che stanno una dentro l’altra: si potrebbe continuare quasi all’infinito, senza immaginare quale ulteriore strato comprenda quello in cui ci troviamo.
Comunque, secondo questo insegnamento, pervenuto a noi oggi soltanto per tradizione orale e senza alcuna definizione, la consapevolezza e la coscienza sarebbero due gradazioni di funzioni distinte all’interno dell’essere umano. La consapevolezza sarebbe rivolta maggiormente all’ambito individuale: è l’esperienza soggettiva di se stessi, non importa quanto consapevoli della “corrente degli eventi” nella quale siamo inseriti; è dunque un’attività legata preminentemente alla mente, alla personalità, non necessariamente coadiuvata da altri fattori. La coscienza ha un significato molto più esteso, una funzione che origina da un funzionamento coordinato delle varie parti componenti la totalità dell’essere umano e che ci permette di percepire contemporaneamente noi stessi, il nostro posto all’interno della corrente degli eventi e il mondo da un punto di vista oggettivo, senza alcuna proiezione o riduzione personale. Tale accezione riprende evidentemente l’originale significato latino della parola coscienza: “cum - scio”, “so insieme”.
A tal proposito andiamo a leggere cosa ne pensa un illustre allievo e collaboratore di John Bennett, tale Anthony Blake, fisico quantistico, nella sua conferenza dal titolo “Solioonensius”, tenuta all’Open Center di New York il 12 agosto 1995: “Gurdjieff descrisse la coscienza, questo potere residuo rimasto ancora in noi stessi, una delle porte divine, come il sentire tutto ciò che si può sentire, tutto in una volta. In modo simile, la coscienza è come conoscere tutto ciò che si può conoscere, tutto in una volta. Come parola in se stessa, «coscienza» significa «conoscere insieme»”.
A questo punto è necessaria una digressione, indispensabile per poter comprendere perché Gurdjieff insistesse tanto sulla questione della “meccanicità” e della possibilità di diventare “coscienti”. Se ci atteniamo alla lettera alle parole di Gurdjieff, infatti, discorrendo di coscienza obiettiva, di evoluzione e così via, si rischia molto facilmente di cadere in affascinanti ma -ahimé - illusorie e pericolose mitologie. Si crea, infatti, una dicotomica lontananza tra lo stato di coscienza sublime, proprio del “maestro illuminato” e la miserabile incoscienza propria dell’ “allievo meccanico” tale che qualsivoglia possibile lavoro su se stessi assume i connotati di un’impresa ciclopica e pressoché impossibile, ma proprio per questo seducente nella sua irraggiungibilità. Oltremodo un comodo alibi per rifiutare a priori qualsiasi possibilità di “illuminazione”, proprio come accadde al povero Ouspensky che non credette a se stesso, né al proprio insegnante, quando Gurdjieff gli dichiaro che da quel momento lui poteva “vedere”. Ora, questo tipo di leggende crea modelli totalmente deformati, come quello del maestro evolutissimo, supercosciente, che cammina a venti (o più!) centimetri da terra, levita a piacimento, si astiene da ogni bisogno fisico (che inferno!) ed è totalmente in possesso di ogni segreto sulla Creazione. Dovrebbe apparire piuttosto evidente che nessun essere umano vive 24 ore su 24 in uno stato di piena coscienza, né ne ha alcun bisogno.
Continua Blake nella sopracitata conferenza “Solioonensius”: “Abbiamo questo tipo di pensiero che dice: «Essere consapevoli è buono. Essere più consapevoli è meglio. Perciò il massimo è essere assolutamente consapevoli sempre.» Ora, questo è effettivamente un nonsenso, perché si ha bisogno di essere consapevoli quando si ha bisogno di essere consapevoli. Questa consapevolezza più profonda che è possibile per noi è una sostanza meravigliosa e preziosa. Immaginate: è più preziosa dell’uranio, del plutonio, dell’oro e dei diamanti. Perché dovrebbe essere disponibile per noi? Soltanto se siamo completamente pazzi e cominciamo a considerare noi stessi completamente separati dal resto della natura e dell’universo. Possiamo anche pensare che acquisire più e più di questa sostanza soltanto perché ci aggrada sia un segno di pazzia cosmica. Ancora, qui è dove viene messa in risalto una parte del quadro cosmologico. Questa sostanza ci verrà data soltanto se può essere utilizzata per uno scopo che è, per così dire, «obiettivo». Non è soltanto per noi. Aumentare la nostra consapevolezza funziona soltanto nel contesto dell’intero modello di trasformazione. Se poteste iniziare a vedere ciò sarebbe meraviglioso. Andreste contro quella sottile tentazione che si ha quando si diventa più svegli e che cattura le proprie emozioni e i propri desideri. E’ vero: è così meraviglioso, e il contrasto di non avere questo stato è così terribile! E’ estremamente difficile andare oltre - per usare il gergo gurdjieffiano - «l’identificazione» con uno stato di coscienza”.
Vi sono in giro per il mondo istruttori spirituali molto carismatici, sinceri servitori della missione che hanno deciso di compiere, e tali rare persone hanno un’intensità della loro presenza e del modo di osservare il mondo molto differente da quella ordinaria. Ciò può essere percepito come un fatto concreto perfino dal comune osservatore. Purtroppo anche tali insegnanti poco possono fare contro un altro fenomeno molto diffuso, che si basa sull’emulazione del comportamento del proprio insegnante. Ciò dovrebbe limitarsi, in realtà, esclusivamente ad uno stato iniziale, propedeutico allo sviluppo del proprio modo di fare le cose. Invece accade spesso che l’allievo continui tale deleteria imitazione a tal punto da generare una vera e propria identificazione nel modo di essere e di fare della guida (che nel migliore dei casi, ovviamente, si rivela soltanto una maldestra interpretazione personale dell’allievo), e che conduce poi ad un ulteriore e talvolta fatale allontanamento dal processo di autorealizzazione. In questo modo nascono leggende e interpretazioni degli insegnamenti del tutto mistificatorie e false: valga per tutti l’esempio della totale astinenza sessuale in certe vie “spirituali”. A parte determinate circostanze in cui viene consigliato il momentaneo risparmio dell’energia sessuale al fine di concentrare un’energia disponibile per il raggiungimento di determinati obbiettivi, la maggior parte di tali divieti nasce da una infantile osservazione del comportamento dell’insegnante. Se lui si astiene, l’astinenza diventa una regola fissa. A ben vedere, una tale sterile pantomima viene generata proprio dall’illusione di una incolmabile distanza tra “il maestro illuminato” e “l’allievo incosciente”.
Al contrario, tutti noi abbiamo la possibilità di accedere a momenti di oggettività - talvolta grazie ad uno shock fortuito - e in quei momenti vediamo le cose realmente come sono. Non essendo purtroppo preparati correttamente a gestire la situazione, tale esperienza viene poi dimenticata o velata come un sogno di cui a stento si ricordano i contorni; ed essere preparati significa non soltanto la capacità di non “spaventarsi” o “meravigliarsi” per ciò che si vede ma soprattutto conoscere le modalità che ci permettano, con un po’ di fortuna, di porci nelle condizioni di fare questa esperienza della realtà al di là delle nostre esclusive proiezioni soggettive. A questo scopo le scuole tradizionali tramandano speciali tecniche ed esercizi per ripulire lo schermo della mente e risvegliare la capacità latente, nell’essere umano, di vedere le cose come realmente sono. Un tale allargamento della consapevolezza viene definito attraverso parole come “apertura del terzo occhio”. San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (13, 12) dice: “Poiché ora vediamo attraverso un vetro oscuro; allora invece vedremo faccia a faccia: ora io vedo parzialmente, ma allora conoscerò appieno, come sono conosciuto”. E Guru Nanak, fondatore del sikhismo - mirabile sincretismo di elementi induisti e musulmani: “Gli occhi non vedono la realtà, ma per mezzo della grazia del Guru si comincia a discernere il Potere di Dio faccia a faccia. Ecco perché un discepolo degno e pieno di adorazione può percepire Dio in ogni luogo.”
La necessità di intendersi sul significato di termini come consapevolezza e coscienza non è affatto un sofisma verbale. Gli scienziati parlano oggi di consapevolezza e coscienza come di attributi normalmente presenti nell’uomo. Se così fosse, però, viene da chiedersi perché l’uomo vada verso svolte di preoccupante autodistruzione. Guerre, droghe, inquinamento, e altri rischi del tutto inutili non sembrano azioni degne di individui capaci di coscienza. Forse, prima ancora di parlare di coscienza sarebbe sufficiente solo un po’ di buon senso, e un modo sereno di considerare gli eventi, per comprendere che la distruzione reciproca non può essere prerogativa di esseri realmente consapevoli della propria esistenza e del significato della vita umana in termini certamente più universali. Ciò dimostra - alla base - una frammentazione dell’essere e del sapere, un’incapacità di “percepire tutto ciò che è possibile percepire, tutto in una volta”. L’uomo, afferma Gurdjieff, “non vede il mondo reale. Esso gli è nascosto dal muro della sua immaginazione. Egli vive nel sonno. Dorme. Quella che chiama la sua coscienza lucida non è che sonno, e un sonno molto più pericoloso del suo sonno, la notte, nel suo letto. Consideriamo qualche avvenimento della vita dell’umanità. Ad esempio la guerra. Vi è la guerra in questo momento. Cosa significa? Significa che molti milioni di addormentati si sforzano di distruggere molti milioni di altri addormentati. Si rifiuterebbero di farlo, naturalmente, se si svegliassero. (...) Questi due stati di coscienza, sonno e stato di veglia, sono entrambi soggettivi. Solo cominciando a ricordarsi di sé l’uomo può realmente svegliarsi.”
Non è un caso se nel linguaggio di tutti i giorni ancora si dia comunemente dell’incosciente a chiunque si comporti in modo particolarmente dissennato e distruttivo.
A questo proposito tornerà anche utile soffermarsi su un altro punto che costituisce tuttora uno degli errori di interpretazione più grossolani - eppure più perpetuati - nel tramandare l’insegnamento di Gurdjieff. Troppe parole del maestro caucasico sono state “prese alla lettera”, decontestualizzate cioè dal momento, dal luogo in cui erano state pronunciate e dall’uditorio cui erano rivolte. E’ sempre Anthony Blake a porre l’accento su questo particolare fraintedimento che ha creato in certi casi dei veri e propri disastri pedagogici:
“Tenete a mente che la gente con cui all’inizio Gurdjieff ebbe a che fare erano persone molto competenti, con intelletti sviluppati e una forte volontà. Erano quasi la crema della crema dell’intellighentsia russa. Questo fu il suo primo pubblico. Tali persone non avevano assolutamente alcun problema con la vita ordinaria. E così Gurdjieff arrivò e disse loro: «Voi, voi siete nullità. Voi non esistete. Voi pretendete di esistere. Quel che avete deciso di fare questa mattina lo avete già dimenticato. Siete addormentati. Siete proprio come il meccanismo a molla di un orologio». E così via. E ha venduto loro questo quadro. Alla fine la gente diceva: «Sì, signor Gurdjieff, sono un pezzo di orologio. Per piacere, salvami dall’essere un pezzo di orologio.»”
Questa apparentemente innocua annotazione fa piazza pulita di tanti pericolosi atteggiamenti emulativi perpetrati dai “successori” di Gurdjieff. Dalla morte di Gurdjieff, persona vitale, positiva e ricca di umorismo - a sentire coloro che lo conobbero personalmente - a oggi, la Quarta Via ha, purtroppo, subìto - soltanto con alcuni istruttori, per fortuna - quel fenomeno di degradazione che spesso si genera perfino nei più autentici insegnamenti dopo la scomparsa del fondatore. Uno dei tentativi più discutibili di portare avanti le idee di Gurdjieff è stata la fondazione di una impossibile ortodossia che si incarna nella Fondazione Gurdjieff, negli Stati Uniti. E’ stato così che Gurdjieff, grandissima figura di sincretista, di eclettico studioso e frequentatore di diversissime tradizioni spirituali, il quale cercò per tutta la vita quella grande sintesi che avrebbe dovuto fornire i mezzi ai suoi allievi, attraverso il risveglio della coscienza, per diventare realmente creativi, è diventato una sorta di pontefice assoluto: tutto quello che lui aveva fatto e detto si poteva continuare a fare e dire esattamente nello stesso modo; ma guai a contestualizzare, guai a sperimentare nuovi modi più adatti a tempi, luoghi e uomini diversi! Il che costituisce, invece, proprio la più grande intuizione di Gurdjieff.
A ciò si aggiunga l’altro errore fatale commesso proprio da Ouspensky, uno dei suoi allievi più brillanti, il quale cercò di separare l’insegnamento dal maestro da cui lo aveva appreso. Il matematico russo ormai parlava della Quarta Via come di un “sistema” a se stante, non collegato necessariamente a chi glielo aveva presentato e spiegato. Egli non ebbe la fortuna di comprendere che il compimento dell’ “opus” cui Gurdjieff faceva riferimento ha la sua peculiarità sostanziale nell’essere assunto, digerito, metabolizzato e poi trasmesso sulla base della propria esperienza personale. In altre parole la Quarta Via è “qualcosa di fatto da noi stessi” per adoperare un’espressione cara a John Bennett. Chiunque cerchi di separare questo insegnamento dalla forma che esso assume nell’individuo che lo tramanda, crea soltanto una dannosa e impossibile dicotomia, perché continua a porre all’esterno dell’uomo stesso la fonte della saggezza e della piena realizzazione. Gurdjieff ha dimostrato il contrario: che, cominciando a farsi carico delle proprie responsabilità e decidendo di creare per se stessi delle condizioni di vita artificiali, (complicandosi - ma in modo fruttuoso e intelligente - la vita, cioè tenendo sempre “l’acqua in ebollizione”) l’essere umano può schiudere dentro di sé quell’occhio illuminato che permette la visione del Mondo Reale.
Malauguratamente, un altro dei tratti caratteristici di alcune scuole che sono convinte di seguire e tramandare gli insegnamenti di Gurdjieff, è quello di instaurare un clima di ottuso quanto ingiustificato pessimismo, se non, talvolta, di vero e proprio terrore. L’uomo è una macchina, l’uomo non può fare nulla - come già dicevamo prima. Sono stati “scimmiottati” i più duri atteggiamenti di severità che talvolta Gurdjieff adoperava con i propri seguaci - per motivi ritenuti opportuni in un preciso frangente e con determinate persone - ma che è assurdo considerare come un generalizzato metodo di insegnamento. Proprio John Bennett, subito dopo la scomparsa di Gurdjieff, mise in guardia contro la pericolosità di tali atteggiamenti, essendo convinto che il provocare “shock” negli allievi - se non si possiede una conoscenza e una padronanza della situazione molto accorta e profonda - può creare soltanto gravi traumi per lo sviluppo dell’individuo. Vi è una gran differenza tra il costruire tetre ossessioni di incapacità con conseguenti sensi di frustrazione e una serena obiettiva ricognizione delle proprie capacità e dei propri talenti. Già il fatto di porre un concetto al negativo -”non posso fare nulla” - finisce per generare una profezia auto-avverante. Poiché l’assunto è che non posso fare nulla, mi metterò nelle migliori condizioni per dimostrare di non poter fare nulla, e ciò sembrerà la forza di un destino immutabile, non l’aver realizzato la mia stessa profezia. Laddove l’atteggiamento più consono - senza scadere in facili ingenuità - è quello di partire da ciò che si è, senza vergogne o compiacimenti. Altrimenti ogni sforzo diventa vano. Persino eseguire semplici tecniche per la divisione dell’attenzione.

LE TECNICHE

Tutti gli insegnamenti autentici per lo sviluppo spirituale raccomandano la cura dell’attenzione per poter migliorare la consapevolezza. Molte vie orientali, come lo Yoga, lo Zen e perfino le arti marziali, partono dalla concentrazione per arrivare alla meditazione per sviluppare differenti e più sottili stati di coscienza. Il corpo viene tenuto immobile e le mente pian piano si libera di ogni “brusio” per poter percepire la Realtà. Ciò implica per la maggior parte delle persone, una concentrazione totale dell’attenzione nello sforzo di non ammettere pensieri, ricordi e associazioni. Il che, per lo più, previene soprattutto gli Occidentali dal poter giungere ad una vera meditazione. Si tratta, infatti, ancora di concentrazione. Inoltre, la lotta contro i pensieri spesso ne genera di nuovi. Nella Quarta Via, allora, viene consigliato il “ricordo di se stessi”. Nel “ricordo di se stessi” l’attenzione non è completamente concentrata in un unico atto, ma viene divisa: una parte nello sforzo, l’altra verso la sensazione, la percezione di se stessi.
Lo stesso Gurdjieff nel libro “Life Is Real Only Then, When «I Am»” descrive l’esercizio basilare per la divisione dell’attenzione: “In questo momento, come vedete, sono seduto in mezzo a voi e mentre guardo Mr. L. dirigo intenzionalmente la mia attenzione, cosa che non siete in grado di seguire, sul mio piede; perciò, quale che sia l’atteggiamento preso da Mr. L. e che sia da me visibile, lo percepisco soltanto in modo automatico, perché la mia attenzione globale è assorbita interamente in un altro posto. Questa attenzione globale ora io la divido intenzionalmente in due parti uguali. La prima metà la dirigo sulla coscienza ininterrotta e la sensazione continua del processo di respirazione che si produce in me. Per mezzo di questa parte dell’attenzione sento distintamente che qualcosa accade dentro di me mentre respiro (...) Siccome solo metà dell’attenzione è impegnata ad osservare il meccanismo della respirazione che si produce dentro di me, tutte le associazioni mentali, emotive e riflesse che scorrono in modo automatico nella presenza generale, continuano ad essere percepite dalla parte libera dell’attenzione e naturalmente ostacolano, ma già in modo più debole, l’altra parte che è stata diretta intenzionalmente su di un determinato oggetto. Ora dirigo la seconda metà della mia attenzione al mio cervello cefalico con lo scopo di osservare e possibilmente constatare ogni processo che vi si produce. E già comincio a sentire là, dalla totalità di associazioni che scorrono automaticamente, il sorgere di qualcosa di molto fine, quasi a me impercettibile. (...) Mentre questa seconda metà dell’attenzione è occupata in questa maniera, la prima continua a sorvegliare ininterrottamente e con un «interesse concentrato», gli effetti prodotti dal processo della mia respirazione. Ora io coscientemente dirigo questa seconda metà della mia attenzione e, senza smettere neanche per un momento di «ricordare interamente me stesso», aiuto quel qualcosa che è sorto nel mio cervello cefalico a scorrere direttamente nel mio plesso solare. Lo sento scorrere. Non noto più alcuna associazione automatica svolgersi dentro di me». Gurdjieff termina poi raccomandando ai suoi allievi e lettori di non aspettarsi subito grandi risultati dalla pratica di questo esercizio, poiché non si possiede ancora la padronanza di un «Io» indipendente: ciononostante esso è la base per rafforzarsi e arrivare poi ad avere un vero «Io».
Una versione semplificata di questo esercizio, che comunque produce risultati molto interessanti, consiste nel portare parte della propria attenzione in una parte del corpo, ad esempio la mano sinistra. Portare l’attenzione significa “essere vivi all’interno della mano sinistra”, non certo pensare, immaginare o guardare la mano sinistra. Se ciò viene correttamente eseguito noteremo immediatamente una modificazione nella percezione della nostra mano sinistra o addirittura un cambiamento di alcuni parametri fisici obiettivi. Ad esempio, la mano può diventare molto più calda dell’altra, segno evidente che molta più energia vi è confluita grazie alla nostra attenzione. Oppure sentiremo la mano formicolare, diventare più pesante o più grossa. (E’ stato empiricamente osservato che questo esercizio, praticato su una parte lesa dell’organismo, produce un’accelerazione del processo di guarigione). Questo è il gradino iniziale. Poi si può cominciare a portare l’attenzione, contemporaneamente, sul piede destro, e osservare ciò che accade in noi a questo punto. Le varie correnti psichiche, gli altri livelli di attenzione cominciano ad essere attivati. E ad un certo punto può accadere qualcosa di molto notevole che fa comprendere il valore insostituibile della divisione dell’attenzione.
Quando osserviamo qualcosa la nostra attenzione è unicamente diretta verso l’oggetto o il fenomeno osservato. Nel “ricordo di se stessi”, invece, l’attenzione è diretta contemporaneamente su ciò che osservo e verso me stesso. Dunque parte della mia attenzione non viene totalmente persa nell’osservazione dell’oggetto, ma ritorna indietro dopo che l’oggetto è stato osservato proprio grazie al fatto che l’altra metà era rimasta ancorata a me stesso. Questo semplice fatto è in realtà la base per comprendere il principio della non-identificazione, così diffuso negli insegnamenti orientali. L’osservatore non dimentica se stesso mentre osserva l’oggetto, non trasferisce cioè se stesso totalmente nell’oggetto osservato. Mantiene la sensazione di se stesso mentre osserva. Questo è il principio del “ricordo di se stessi”.
Una delle obiezioni più frequenti a questo principio di non identificazione consiste in una semplice ma intelligente domanda: tutto questo dividere, allontanare, non identificare, come fa ad avvicinarci alla realtà e a riunirci a noi stessi? La risposta non è altrettanto semplice ed è ingannevole: proprio perché a forza di dividere non è detto poi che si sia capaci di riunire; e a forza di allontanarsi non è detto che si sia capaci di avvicinarsi. In realtà l’albero si riconosce dai frutti. Se tutto il lavoro viene eseguito in maniera organica, (ed ecco perché la necessità, almeno iniziale, di un insegnante ben qualificato) dopo un primo momento di separazione da se stessi giunge la fase della “riappropriazione” di se stessi: è un po’ la famosa storiella degli alberi che tornano ad essere alberi e delle montagne che tornano ad essere montagne della tradizione Zen. La separazione, la divisione e soprattutto la non-identificazione con se stessi significano principalmente che il ricercatore si separa momentaneamente da un tipo di decodificazione della realtà circostante (mettendola costantemente in dubbio o seguendo l’ipotesi di interpretazione suggerita dall’insegnante) per sganciarsi dal colpevole abbraccio che la consapevolezza stringe con la sensibilità e che ci impedisce di essere obiettivi. Il risultato finale dovrebbe essere tale da permetterci non solo di percepire nuovamente la realtà dando piena fiducia ai nostri “istinti”, ma soprattutto una maggiore obiettività (e dunque vicinanza) nei confronti di essa. Se ciò non accade dopo un periodo di tempo più o meno ragionevole, è segno che si sta andando incontro a seri disturbi della personalità e che dunque il lavoro è stato impiantato in modo del tutto sbagliato.

IL LAVORO SU SE STESSI
L’esercizio di preparazione e la meditazione mattutina

Si assume una posizione comoda, nella quale si possa rimanere immobili per circa trenta o quaranta minuti. La schiena deve essere ragionevolmente dritta, ma non rigida, possibilmente non appoggiata ad uno schienale. Le gambe possono essere incrociate, se si siede sul pavimento o su un sofà, oppure si può scegliere la posizione seduta. Le mani sono sempre sulle cosce o sulle ginocchia, rilassate. Gli occhi possono essere chiusi o lievemente socchiusi, con lo sguardo a circa tre metri davanti a noi, verso terra.
Si porta l’attenzione sugli occhi, sui muscoli che li circondano, poi sulle guance, la mandibola, il collo, la gola: si procede con il tempo richiesto dalla nostra condizione, mai troppo velocemente, comunque. Ogni volta che si porta l’attenzione su una parte specifica del corpo, si porta poi in quella parte l’impulso del rilassamento. Si torna gradualmente verso gli occhi. Ora si porta l’attenzione sulla fronte, poi sulla parte superiore del capo, la nuca, le orecchie, la parte posteriore del collo. Scendiamo lungo la colonna vertebrale cercando di seguire vertebra dopo vertebra, fino all’osso sacro e poi su di nuovo al collo. Quindi si passa alle spalle. C’è un punto tra il collo e l’articolazione scapolo-omerale nel quale è piuttosto comodo portare l’attenzione e che subito si sensibilizza. E’ quella parte del corpo dove normalmente somatizziamo tutte le preoccupazioni e i sensi di responsabilità. Procediamo bilateralmente portando l’attenzione in questo punto centrale tra il collo e le spalle, poi scendiamo lentamente verso l’articolazione scapolo-omerale e portiamo lì la nostra attenzione. Quindi sulle braccia, poi i gomiti, quindi gli avambracci, i polsi, i dorsi delle mani, pollice, indice, medio, anulare, mignolo e sul palmo delle mani; quindi risaliamo verso le spalle. Ora portiamo l’attenzione sulla parte anteriore del corpo, il torace: rilassiamo i muscoli pettorali e per quanto possibile la muscolatura intercostale; quindi passiamo alla speculare parte delle spalle, rilassando le scapole e tutti i muscoli di questo distretto corporeo. Torniamo sul lato anteriore: rilassiamo dalla bocca dello stomaco fino al plesso solare (tre dita sotto l’ombelico), ammorbidiamo gli addominali e poi passiamo posteriormente, rilassando la porzione di muscoli lunghi del dorso interessata e la regione dorsale della colonna vertebrale.
Torniamo davanti e rilassiamo il bacino, e poi lo stesso posteriormente. Quindi si porta l’attenzione sulle articolazioni delle anche, poi sulle cosce, le ginocchia, le gambe (tibia e perone), le caviglie, il dorso dei piedi, il tallone, le singole dita del piede una per volta (questo è uno dei punti più difficili per la nostra attenzione: avere consapevolezza di una delle quattro dita inferiori del piede, a parte l’alluce, è davvero arduo!) e quindi la pianta del piede. Una volta che la nostra attenzione è sulla parte inferiore dei piedi, visualizziamo e avvertiamo il contatto con la superficie terrestre. Attraverso quel fazzoletto di terra che occupiamo siamo in contatto con tutta la superficie terrestre, cerchiamo di averne percezione, e poi scendiamo in profondità, prendiamo contatto con le viscere della terra. Ora avvertiamo la corrente vitale che proviene dalla Terra scorrere all’interno, partendo dalla pianta dei piedi, su lungo tutto il corpo fino alla sommità del capo e poi giù di nuovo. Passiamo quindi alla respirazione: inspiriamo energie nuove e rinfrescanti ed espelliamo con l’espirazione i prodotti di rifiuto. Facciamo questo circa venti volte. Poi inspiriamo emozioni positive ed espiriamo le emozioni negative e di scarto che albergano ancora dentro di noi. Passiamo al capo: con gli occhi chiusi, visualizziamo una luce potente, che letteralmente lava e pulisce il nostro cervello e ci permette di spezzare la corrente ininterrotta delle associazioni automatiche: è un Sole che proviene da oltre il nostro sistema solare e ci permette di lavare i nostri pensieri. Visualizziamo poi le stelle che, anche se non ne siamo consapevoli, brillano incessantemente e agiscono con precisi influssi protettivi sulla nostra vita.
Qui l’esercizio di preparazione - che come si nota interessa i tre centri fisico (piedi), emozionale (area cardio-respiratoria) e intellettuale (cervello-mente) - ha termine per lasciar posto alla meditazione vera e propria. Dopo questo esercizio di preparazione è possibile restare in silenzio totale con se stessi, rimanendo in uno stato di attiva ricettività nei confronti di qualsiasi stato possa presentarsi. Quindi si passa all’esercizio della decisione: ci si pone un piccolo scopo da portare a termine durante la giornata. Anche una cosa molto banale, come - è solo un esempio - bere un bicchier d’acqua alle cinque in punto o recitare una poesia prima di andare a letto. Anzi, è consigliabile iniziare con obiettivi lievi e anche divertenti per poter poi passare a cose realmente utili per la nostra educazione. Dopo l’esercizio della decisione si rimane ancora in silenzio e poi si termina l’intero esercizio.
Talvolta si collega a questo esercizio di preparazione una seconda parte, che spesso viene guidata e per così dire “improvvisata” dall’insegnante stesso secondo le condizioni del momento.
Di molti esercizi, purtroppo, non è possibile discorrere su queste pagine perché, per una corretta esecuzione, necessitano di una trasmissione orale diretta da parte dell’insegnante. Una particolare cura deve essere rivolta nell’esecuzione di questo esercizio di preparazione: e cioè che devono essere esclusi dalla nostra attenzione tutti gli organi vitali a funzionamento istintivo: cuore, polmoni, fegato, milza, reni. Esercizi tipo rallentare il battito cardiaco possono rivelarsi molto perniciosi. Invece è possibile estendere il rilassamento a ossa, vene, e altri tessuti.

Altri esercizi

Vi sono altri accorgimenti per cercare di sviluppare l’attenzione, rafforzare la volontà, espandere le proprie abilità. Ecco tre esercizi piuttosto impegnativi:

• La Divisione dell’Attenzione: Portare l’attenzione - durante un periodo di tempo ragionevole (iniziando con venti minuti per arrivare a due ore o più) e comunque precedentemente determinato - alternativamente su un arto. Compiere il giro completo del corpo, ma ogni volta che si inizia nuovamente bisogna saltare l’arto iniziale. Esempio. Sono le 9 del mattino. Decido di portare l’attenzione sui quattro arti nell’arco di 60 minuti. Inizio con la mano destra. Dalle 9 alle 9,10 porto l’attenzione sulla mano destra. Una volta stabilito il giusto “feeling”, devo mantenere questa sensazione continuando a fare le cose che normalmente faccio. Ma alle 9,10 in punto devo ricordarmi di spostare la mia attenzione sul piede destro. Poi alle 9,20 sposto l’attenzione sul piede sinistro, alle 9,30 sulla mano sinistra. Alle 9,40 dovrò ricordarmi di “saltare” la mano destra, con la quale avevo iniziato, portando dunque l’attenzione sul piede destro e così via. Ogni giro, si salta l’iniziatore del giro precedente.

• L’Esercizio dello Stop: Ordinarsi uno stop ad ogni cambio dell’ora. Per dieci o venti secondi, appena ci accorgiamo che cambia l’ora, ci immobilizziamo in qualsiasi posizione ci troviamo o azione che stiamo compiendo (sconsigliato durante la guida!).

• Il Canto Interiore: scegliere un mantra, un’invocazione, un canto devozionale a proprio piacimento e ripeterlo incessantemente, quanto più possibile. Dopo un po’, generalmente, l’esercizio termina da solo e a nostra insaputa. Ma appena ci destiamo, perché tale è la natura della coscienza - di essere discontinua - se questo canto si è radicato in noi con fermezza, inizia nuovamente. Potremo addirittura notare, ma solo con una pratica strenua, che nel momento in cui la nostra coscienza si desta, il canto inizia.

• La Numerazione “Teosofica”. Si conta, (questo esercizio può essere eseguito anche camminando e scandendo mentalmente i numeri ad ogni passo) da 1 a 5, poi da 2 a 6, da 3 a 7 e così via fino a 100 e poi si torna indietro. Esempio: 1, 2, 3, 4, 5; /2, 3, 4, 5, 6; /3, 4, 5, 6, 7; /etc. 100, 99, 98, 97, 96; / 99, 98, 97, 96, 95; /98, 97, 96, 95, 94; / etc. Se si sbaglia, cosa molto probabile e statisticamente molto possibile, si ricomincia sempre da capo. Il tragico è sbagliare verso la fine!

Queste poche righe, ovviamente, possono costituire soltanto un assaggio di una corretta pratica di lavoro quotidiano finalizzata al “lavoro su se stessi”. Per poterne scoprire le varie implicazioni, bisogna praticare gli esercizi e lavorare in gruppo. A volte si schiudono dimensioni nuove e insospettate. A volte no. Perché tecniche ed esercizi sono soltanto mezzi. Dunque buoni in un momento e dannosi o inutili in un altro. Perché ciò che libera oggi, potrebbe imprigionare domani.

VERSO LA QUINTA VIA
La peculiarità più dirompente e creativa nella Quarta Via, a differenza delle vie tradizionali, è quella di non poter essere insegnata e di essere “in fieri”. Ciò sembrerà a prima vista un provocatorio paradosso: invece si tratta dell’essenza di un cammino che è in continua evoluzione. Non esiste una meta ultima, un Nirvana o un Samadhi che non venga superato da un ulteriore stato di trasformazione. Gurdjieff parlava di “una legge fondamentale che crea tutti i fenomeni nella loro diversità o l’Unità di tutti gli universi” : la Legge del Tre. “Secondo questa legge, ogni fenomeno su qualsiasi scala o in qualsiasi mondo esso abbia luogo, dal piano molecolare al piano cosmico, è il risultato della combinazione o dell’incontro di tre forze differenti e opposte”. In particolare, mostrava come la Terza Forza (nei confronti della quale, diceva Gurdjieff, siamo ciechi - nel senso che non ne scorgiamo mai la presenza e l’azione) assumesse l’appellativo di forza riconciliante (o neutralizzante) essendo gli altri due termini della triade la forza attiva, positiva e la forza passiva o negativa. “Ma questi sono soltanto dei nomi.” - chiarisce Gurdjieff - “In realtà queste tre forze sono tutte egualmente attive; esse appaiono come attive, passive o neutralizzanti solamente nel loro punto d’incontro, cioè soltanto nel momento in cui entrano in relazione le une con le altre” . Dunque, la Terza Forza arriva a riconciliare la natura antitetica della prima e della seconda. Ora, suggerisce il nostro amico Blake: “Quando il quattro viene fuori dall’ombra, appare esattamente nello stesso modo in cui era apparso il tre: una sintesi di differenze. Nella triade, la terza forza integra le differenze di affermazione e negazione. Nella tetrade, il «quarto» è l’integrazione degli altri tre termini. Questa è l’idea di base che Gurdjieff dà della quarta via: l’integrazione della via del fachiro, del monaco e dello yogi; o del corpo, delle emozioni e della mente. La quarta via non è soltanto «un via ulteriore », come le altre. Perché si qualifica per questo stato speciale? Un nuovo personaggio è apparso sulla scena, uno di cui sospettavamo l’esistenza ma che non potevamo vedere. E’ il trickster (l’impostore, il bagatto n.d.t.) di tutte le società arcaiche o, in termini gurdjieffiani, l’uomo scaltro. L’idea della quarta via che integra insieme le altre tre appare così innocua, così ragionevole! E’ un gioco di destrezza, che richiede l’intervento di un mago, o l’applicazione della pietra filosofale. In una sola parola, è alchemica, nota in quella tradizione come il quarto recalcitrante. Platone era a conoscenza di ciò. Nel «Timeo», Socrate chiede notizie sul quarto ospite che non si è presentato, e deve prendere il suo ruolo. Accade lo stesso con Gurdjieff che insegna la quarta via, che non può essere in effetti realizzata attraverso nessun insegnamento! Tutto quel che un insegnante può fare è stabilire una relazione, una triade. La quarta via è ciò che le persone elaborano tra loro stesse: «qui accade il miracolo!»”
Un altro importante fattore da tenere in considerazione è che “le teorie tradizionali fanno notare qualcosa di grande interesse: che non vi è mai alcun sistema «isolato» che sia valido senza il coinvolgimento di altri sistemi. Se vi è il tre, vi è il due e il quattro; se vi è il quattro, vi è il tre e il cinque”.
Su questa scia, Blake parla della Quinta Via come di un’auto-iniziazione per mezzo della quale si è capaci di assimilare informazioni da ogni fonte. Certamente, se vi è una Quarta Via, è perché vi è una Terza Via e una Quinta Via. Lo stesso discorso è valido per la classificazione (puramente strumentale) in sette tipi che Gurdjieff opera degli uomini: l’uomo n. 1, centrato sul fisico; l’uomo n. 2, centrato sulle emozioni; l’uomo n. 3 centrato sul pensiero. E poi l’uomo n. 4, il “prodotto del lavoro di una scuola” nelle stesse parole di Gurdjieff , nato n. 1, 2 o 3 ma che grazie a sforzi di carattere ben definito è diventato n. 4. E’ colui che ha iniziato a lavorare su se stesso e ha già “un centro di gravità permanente” e certe altre qualità che gli permettono di scorgere la direzione del proprio cammino che lo condurrà verso la formazione di un “io” indipendente e cristallizzato, un uomo che non è più soggetto a cambiamenti accidentali, l’uomo n. 5. E così via.
Ora, lo stesso Gurdjieff aveva offerto alcuni spunti molto importanti sull’auto-iniziazione laddove poneva in risalto la funzione delle scuole esoteriche e il significato di rappresentazioni “iniziatiche” come gli antichi Misteri: “I passaggi da un livello di essere ad un altro erano caratterizzati da cerimonie di presentazione di natura speciale: le iniziazioni. Ma nessun rito può dar luogo a un cambiamento dell’essere. (...) Si suppone che un rito, trasformandosi in sacramento, trasmetta e comunichi certe forze all’iniziato, e questo si ricollega alla psicologia di una via di imitazione. In realtà ognuno deve iniziare se stesso. I sistemi e le scuole possono indicare i metodi e le vie, ma nessun sistema, nessuna scuola, può fare per l’uomo ciò che lui stesso deve fare. Una crescita interiore, un cambiamento di essere dipendono interamente dal lavoro che ognuno deve fare su di sé.”

Alessandro Staiti

Bibliografia minima consigliata

Oltre i testi già menzionati tornerà utile la lettura dei seguenti volumi:

J.G. Bennett: Transformation, Claymont Communications
J.G. Bennett: The Sevenfold Work, Claymont Communications
J.G. Bennett: The Way To Be Free, Claymont Communications
J.G. Bennett: L’uomo superiore, Astrolabio
J.G. Bennett: Making a Soul, Bennett Books
J.G. Bennett: I Maestri di Saggezza, Edizioni Mediterranee