TRANSUMANZA

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mercoledì 1 luglio 2009

Dell'utopia e dei piedi per terra.

Di seguito la relazione che ho proposto all'incontro "Ecovillaggi; quali soluzioni per uscire dalla crisi", nell'ambito del festival La Città Olistica.
Il festival, della durata di due giorni (23-24 maggio), è stato organizzato dal CONACREIS nella bella cornice di Villa Sorra, a Panzano di Castelfranco Emilia (Modena).
La relazione:


Quando sono stato contattato da Alfonso del Conacreis per la logistica della mia permanenza a Castelfranco Emilia e lui ha citato la Via Emilia ho avuto un piccolo-grande moto di emozione. Non credo di averla percorsa fisicamente prima di questi giorni, almeno non me ne sono mai accorto ma, da oltre vent’anni, ascolto le canzoni di Francesco Guccini. Fra la via Emilia ed il west è stato uno dei suoi album, dal vivo, di maggior successo e dunque pur non avendo mai percorso, almeno fino a ieri, la Via Emilia è come se avesse fatto parte, da tempi lontani, dei miei tracciati esistenziali. Francesco Guccini ha cantato e canta, tra le altre cose l’utopia, “il mondo che faremo”. L’utopia: «l’utopista accende delle stelle nel cielo della dignita’ umana ma naviga in un mare senza porti», scriveva un grande utopista del Novecento, Camillo Berneri, anarchico, una delle menti più brillanti dell’anarchismo italiano, ucciso in Spagna, a soli 37 anni, nel corso della guerra civile, da soldati dell’armata rossa. Ucciso per la pericolosità delle sue idee perchè come guerrigliero valeva davvero poco, non foss’altro per la sordità che lo affliggeva. Mi aveva raccontato una sua parente, che gestisce l’archivio della famiglia Berneri a Reggio Emilia, che Camillo non stette molto sulle barricate perchè quando iniziavano a fischiare le pallottole lui non se ne accorgeva, dunque non si abbassava e rischiava di diventare un facile bersaglio. I compagni lo pregarono di fare ciò che gli riusciva meglio: pensare e scrivere. Doveva essere, giocoforza, solo un teorico della rivoluzione sociale. La sua frase «l’utopista accende delle stelle nel cielo della dignita’ umana…» è una delle più belle che abbia mai sentito sulla profonda valenza, individuale, esistenziale e sociale dell’utopia. Mi piace la relazione in cui Berneri l’ha posta con la dignità dell’essere umani, una dignità calpestata infinite volte nella storia: "uno scandalo", scriveva difatti Elsa Morante, "che dura da diecimila anni". Una dignità che purtroppo vedo calpestare di continuo nell’India castale, dove vivo la maggior parte del mio tempo da quasi 4 anni. Uno spettacolo che mi ha fatto rivalutare le radici cristiane della nostra cultura, la percezione non gerarchica dell’altro come un fratello, fratello di sventura e di “grazia”, nel momento in cui soffre per tutto quello per cui soffriamo anche noi (o quasi) e gioisce di tutto quello che dà anche a noi piacere; che ha bisogno, come noi, di amore ed ha grossomodo le stesse paure: della morte, della solitudine, delle malattie, delle invalidità, sue o dei suoi cari.
«Un uomo senza utopia e’ un mostro di istinto e raziocinio; una specie di cinghiale laureato in matematica pura», sosteneva un altro grande utopista dei nostri giorni: Fabrizio De Andrè. Eppure, De Andrè aveva uno splendido agriturismo in Sardegna e guadagnava bene con i diritti sui dischi. Questo lo faceva talora oggetto di critiche nell’ambito del movimento anarchico (lui stesso, com’è noto, si professava tale). Avrebbe dovuto rifiutare i circuiti ordinari delle case discografiche puntando, piuttosto, sull’autoproduzione, sostenevano alcuni anarchici. Io trovo invece che essere stato distribuito nei circuito ordinari ha permesso a De Andrè di diffondere ideali di antimilitarismo, ideali della migliore tradizione cristiana, umanitari, libertari. Gli ha permesso di parlare a diverse generazioni, di diventare, come disse Paolo Villaggio in occasione della sua morte, uno dei massimi poeti del Novecento, per tutti, non solo per i circuiti antagonisti.
L’utopia oggi, come tutto, ha probabilmente bisogno di essere un po’ svecchiata. Vedendo la storia recente delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi, andando indietro appena di qualche decennio, troviamo comuni hippy, comuni rurali o metropolitane intrise di utopia antimonetaria. Posti da cui il denaro era spesso letteralmente bandito, dove si cercavano di realizzare ideali, peraltro ancora attuali, di autosufficienza alimentare, di autoproduzione attraverso l’artigianato...in altre parole, dove si cercava di sopravvivere al di fuori del circuito di mercato conducendo una vita semplice, paleotecnica e pre-tecnologica, naturalmente eco-sostenibile. Quanto è attuale oggi, questo utopico paradigma comunitario? Chi conosce un minimo la realtà delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi sa bene che realtà che, pur con gli aggiornamenti del caso, aderiscono ancora in un modo o nell’altro a questo paradigma costituiscono un’anima del “movimento”.
Un’anima, direi, che non manca di una sua profonda suggestione e verità e che suggestiona anche me; ha molto di buono!
Il fenomeno comunitario sta conoscendo una “prudente fioritura”. In altre parole sono sempre di più le persone interessate ad esserne più o meno profondamente coinvolte. E’ ancora un fenomeno di avanguardia ma si sta candidando, soprattutto se consideriamo le esperienze di co-housing in nord Europa, ad uscire dalla penombra. La cosa interessante è che si stanno avvicinando sempre di più persone cosiddette “normali”. Questo è già un aspetto che differenzia i nostri tempi dagli anni ‘60 e ‘70 in cui le persone che sceglievano la vita comunitaria erano in un modo o nell’altro facilmente riconoscibili (dal modo di portare i capelli, dal modo di vestire…Verdone, ad esempio, ne e’ stato brillantemente ispirato nella caricatura dell’hippy in Un sacco bello).
Oggi persone che stanno scegliendo di vivere in un co-housing, in una comunità intenzionale o in un ecovillaggio possono facilmente confondersi nella metropolitana di Roma o di Milano.
Possiamo dunque dire che il fenomeno stia subendo, oltre che una prudente fioritura, anche una prudente “standardizzazione” che non vuol dire “omologazione”, vuol dire semplicemente che sta uscendo dalla nicchia.
Questo, a mio modo di vedere, è molto buono nel momento in cui non vedo il motivo di avere “pruriti elitari”.
Vivere in un co-housing, in una comunità intenzionale o in un ecovillaggio può avere molti vantaggi di natura economica (vivere insieme costa meno, nel momento in cui possono essere condivisi diversi beni, dalla lavatrice alla macchina al computer eccetera), relazionale, ambientale e molti altri.
Nel momento in cui il fenomeno sta riscontrando una maggiore diffusione cambiano, giocoforza, i parametri di riferimento. Persone cosiddette normali tendono ad amare l’acqua calda quando si fanno la doccia, a desiderare la corrente elettrica in casa. Di più: navigano, chi più chi meno, in internet, usano il cellulare, vogliono concedersi qualche viaggio in giro per il mondo eccetera eccetera. Ci stiamo insomma allontanando dalla radicalità degli anni ’60 e ’70. Ciò non toglie che il fenomeno comunitario continui a mantenere un afflato utopico. L’utopia rappresenta sempre una necessità se non si vuole diventare, per citare ancora De Andrè, dei cinghiali laureati in matematica pura. Essere utopisti oggi, però, non credo voglia più dire avere una visione “terrifica” del mercato e dei soldi.
Mantenendoci nel presente, non stiamo vivendo un momento facile, la decrescita ha colpito l’Italia (ogni italiano ha disposizione, quest’anno, 1051 euro in meno rispetto all’anno scorso; questo significa che alcuni nostri concittadini non si stanno quasi accorgendo della crisi mentre altri stanno viaggiando, con il collasso degli ammortizzatori sociali, verso una prospettiva di vita a zero euro). Si impennano i licenziamenti, c’è chi si è ridotta a guadagnare 78 euro mensili. A fronte di tutto questo, non mi sembra davvero che la decrescita si stia rivelando “felice” e nemmeno che possa essere sufficiente farsi lo yogurth in casa o coltivarsi i pomodori, le patate o prendere l’acqua alla sorgente piuttosto che al supermercato. Le spese universitarie per i figli, le bollette della luce, del gas, del telefono, le assicurazioni per la macchina, che non può essere sempre sostituita con la bicicletta, non possono essere autoprodotte o barattate; ci voglio, prosaicamente, i soldi.
Vivere in comunità fa spendere meno: ottimo. E’ già un ottimo antidoto alla crisi. Trovo però auspicabile vivere le esperienze comunitarie con i piedi al loro posto, senza illudersi sia sufficiente avere un po’ di terra, l’opportunità di coltivarsi un orto ed un circuito di baratto e di scambio. Intendiamoci: questa può essere una prospettiva possibile, riducendo drasticamente i bisogni ed i desideri. Ci sono centinaia, migliaia di persone solo in Italia che hanno deciso di vivere in questo modo e sono francamente contento ci siano. Trovo tuttavia non sia una prospettiva appetibile per le cosiddette persone normali che sempre più numerose vogliono essere coinvolte in un’esperienza di vita insieme, per le quali è necessaria una cultura comunitaria che tenga, mondanamente parlando, i piedi in terra.
Veniamo ad un esempio pratico. Ho avuto il piacere di intervistare, ultimamente, Triveni, coinvolta in una nuova esperienza comunitaria, ovvero in una nuova comunià Ananda, legata ai villaggi Ananda, fondati da Swami Kriyananda, discepolo di Yogananda, in America, in India ed in Italia. Cito dall’intervista:

«Io abitavo a Lugano fino a due anni fa, ho creato lì un gruppo di meditazione e poi, essendo la città geograficamente vicina a Bellinzona e Locarno, oltre a Como, Milano, Varese, si è creata, circa 4 anni fa, una bella energia di avvicinamento dei gruppi di meditazione presenti sul territorio, in seguito alla quale ho pensato di creare l’Associazione Ananda Insubria. Attualmente ci sono una settantina di associati e l’obiettivo dell’associazione è sostenere la nascita di un’altra comunità Ananda in grado anche di supportare la comunità storica. L’idea era di creare dei business etici che potessero andare a sostenere economicamente la comunità nascente, dando lavoro ai membri oltre a dare un messaggio che oggi è, direi, più che necessario. C’è difatti questo pregiudizio per cui se si è etici per forza non bisogna avere successo ed essere dei poveracci. Kriyananda ha dunque scritto un corso per corrispondenza: Il successo materiale attraverso i principi dello yoga in cui si addentra negli insegnamenti dello yoga per farli compenetrare con le dinamiche lavorative e del business. Sostiene che il vero successo (eticamente sostenibile) è un successo espansivo e non è per pochi. Si ha nel momento in cui si crea prosperità per un’azienda ma anche per chi ci lavora; in una parola: tutti debbono prosperare! Swami ha dato dunque molta enfasi al fatto di creare business. Noi abbiamo dunque creato, al nord, la cooperativa Ananda EcoEnergy a scopo mutualistico. Tutti i soci sono discepoli di Yogananda, siamo tutti sincronizzati sullo stesso sentiero spirituale e scopo della cooperativa è sviluppare il discorso delle energie alternative, in particolare pannelli fotovoltaici. Il nostro fornitore è Stefano Leoperdi e la sua azienda — Renergies Italia — è un’azienda leader, nel nostro paese, nella produzione di “pannelli etici”. Dunque c’è un aspetto di messaggio di salvaguardia del pianeta ma il messaggio più importante è quello di creare un business etico in virtù del quale principi come cooperazione, solidarietà, rispetto dell’altro, il far risaltare le qualità, le risorse del team invece che creare competizione all’interno dello stesso siano un grande presupposto di successo».

Accanto a questo si possono citare altri esempi: quello della comunità Il Forteto, nel Mugello, in cui vivono poco piu’ di cento persone, che fatturava, nel 2004, quindici milioni di euro l’anno esportando prodotti caseari in tutto il mondo, producendo ottima carne chianina ed altri prodotti da agricoltura biologica, su larga scala.
Possiamo anche citare il caso di Damanhur, considerata da Bill Metcalf, sociologo esperto di comunità di fama mondiale e da altre importanti personalità del GEN come una delle esperienze comunitarie più riuscite nel mondo. A Damanhur si contano oltre 60 attività economiche e di servizio.
Cito da sito www.damanhur.org:

«La maggior parte sono cooperative, riunite in un consorzio, che garantisce con il suo marchio la qualità dei loro prodotti, realizzati seguendo principi etici ed ecologici. Le attività damanhuriane spaziano in molti settori: laboratori d’arte — lavorazione del vetro, mosaico, pittura, scultura, restauro — , ristorazione ed agriturismo, informatica, editoria, ricerca terapeutica, bio-architettura e bio-edilizia».

A questo credo meriti aggiungere che il grande dinamismo di Damanhur, il suo incremento demografico, la sua valorizzazione di antichi mestieri e della produzione artistica stanno portando benessere e vitalità nell’area circostante, i cui indici di depressione ed invecchiamento, a quanto scrive il sociologo Luigi Berzano, autore di Damanhur: Popolo e Comunità sono alti ed allarmanti.
In poche parole io credo si debba coltivare la prospettiva di comunità prospere e ben organizzate, in cui benessere e tecnologia non debbano essere oggetto di timore quasi superstizioso. Comunità che è bene lavorino il più possibile in rete, utilizzando lo strumento che, come scrive in maniera un po’ iperbolica Jacopo Fo, protagonista di un’altra esperienza comunitaria con i piedi per terra — Alcatraz — salverà il pianeta: Internet. Trovo sia quantomeno auspicabile si intensifichino gli scambi di link, lo scambio di pubblicità e l’e-commerce nell’ambito del circuito comunitario. Io stesso sono disposto a collaborare: ho già approntato un sito internet — viverealtrimenti.com — in cui ho iniziato a fare un timido e-commerce di libri, in cui ho presentato la maggior parte delle esperienze comunitarie in Italia e diverse esperienze in Europa e nel mondo, in cui sono disposto ad ospitare banner di tutti i siti di comunità o affini che me lo richiedano, oltre a banner pubblicitari per attività ed aziende comunitarie (ad esempio la cooperativa Ananda EcoEnergy o la cooperativa Inner Life, per fare solo due esempi). Trovo auspicabile cresca una cultura di mutuo appoggio tra le comunità intenzionali, gli ecovillaggi, i “comunitari part-time” ed i semplici simpatizzanti riguardo le rispettive attività economiche — perchè comprare l’olio alla COOP se lo posso prendere dal Forteto o da Bagnaia? Perchè rivolgermi a terzi per la consulenza e l’acquisto di pannelli solari se esiste Ananda Insubria? — a livello virtuale e materiale, favorendo in ogni modo, ripeto, la cassa di risonanza del networking.
Il rafforzamento economico del circuito comunitario può agevolare le realtà più giovani che possono inserirsi in un network dinamico e redditizio.
Le comunità intenzionali e gli ecovillaggi possono contribuire profondamente a costruire un mondo migliore. Per parafrasare Sri Aurobindo, cui si ispira l’esperimento comunitario di Auroville, nel sud dell’India, bisogna saper essere anche “luminosamente materialisti” per farlo.
Grazie dell’attenzione.