TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

martedì 21 settembre 2010

Sfuma l'esilio nepalese.

Vivere altrimenti ha ottenuto ieri un visto di tre anni (con entrate multiple) per l’India. E’senz’altro un’ottima acquisizione per il nostro progetto esistenziale e divulgativo che lavora in stretta connessione con la Om International Yoga Health Society di Varanasi. Di ritorno nella città della luce (traduzione di Kashi, antico nome di Varanasi), nei prossimi giorni, riprenderanno i lavori per il testo Yoga from authentic Indian tradition, iniziati in occasione della preparazione dello Smriti Europe Tour e per Con Jasmuheen al Kumbha Mela, quasi in dirittura di arrivo.
Il centro della Om International, mentre io ero a Kathmandu in attesa del visto, ha avuto a sua volta dei progressi. Ora abbiamo anche il tavolo (fatto apposta da un falegname della città per eludere i costi sostenuti dei tavoli da catalogo) per i trattamenti di Panchkarma e Shirodara (branche dell’ayurveda in cui si è ultimamente specializzata Smriti) e per altri tipi di massaggio (ne approfitterò senz’altro appena rientrato).
La mia esperienza nepalese è stata molto affascinante ed ha prodotto nuovi interessanti riferimenti per il vivere altrimenti. Stanchi della routine varanasina, potremo difatti approfittare dello Shambhala Resort, un posto tranquillo e con un’eccellente qualità recettiva (con pacificanti thanka buddisti alle pareti) poco distante da Kathmandu, ottima base di partenza per passeggiate in montagna (nella zona del famoso monastero buddista vajrayana di Kapan) e a mezzora di autobus o di taxi dal centro cittadino.
Si sono inoltre aperte, in città, nuove ipotesi di filoni di business con cui integrare l’attività editoriale ma è questo un discorso ancora del tutto prematuro.
Viverealtrimenti, difatti, sarà presto in Italia (tra meno di un mese) per un’agenda di presentazioni e promozioni dei libri già pubblicati e per avviare nuovi progetti editoriali con autori italiani.
L’attività editoriale, dunque, accanto a quella yogica di Smriti, è già sufficientemente impegnativa, al momento ma possiamo senz’altro dire che alcuni importanti semi sono stati piantati.
Il conseguimento del visto ha richiesto un mese ed una settimana, speso in due diversi paesi asiatici (in Sri Lanka, ospitato splendidamente a Sarvodaya, prima che in Nepal). E’ stata una prova importante e ne siamo usciti fuori bene. Spero davvero che questo sia di buono auspicio per affrontare a testa alta le altre sfide che il vivere altrimenti ci porterà.
Tutto il meglio.

In coda all'esilio nepalese; ascoltando Signora Bovary di Francesco Guccini
Oggi il sole è proprio bello, fuori dello Shambhala Resort e so che la sua presenza non sarà stabile. Prima o poi, in giornata, il monsone scoccherà la sua ora quotidiana e sarà, nuovamente, pioggia.
Il monastero di Kapan è poco distante, ho un bel libro da riconsegnare alla sua biblioteca, mi dovrei muovere ma, dopo colazione, attendo.
Attendo ascoltando per l’ennesima volta quello che considero l’album più riuscito di Francesco Guccini: Signora Bovary. E’ giunto dunque il momento, oggi, libero da kafkiani impegni burocratici, di scrivere qualcosa al riguardo, in particolare su due brani che considero autentici capolavori: Signora Bovary e Van Loon.
Avrei bisogno della mia biblioteca domestica italiana, con un bel libro su Francesco Guccini comprato a Napoli tanti anni fa ma vedrò di andare a memoria (i testi li conosco a menadito e, per quanto riguarda qualche citazione dal libro, spero di non prendere cantonate).
Iniziamo con Signora Bovary:

Ma che cosa c’è, in fondo a quest’oggi,
di mezza festa e di quasi male,
di coppie che passano sfilacciate
come garze stese contro il secco cielo autunnale.
Di gente che si frantuma in un fiato,
senza soffrire, senza capire
e i tuoi pensieri sono solo uno iato
tra addormentarsi e morire…

Trovo sia un inizio semplicemente straordinario, straordinariamente denso: “ma che cosa c’è”: il quesito esistenziale primo di ogni essere senziente, un quesito in cui si può anche ravvisare la grande tragedia dell’uomo occidentale, figlio dell’illuminismo, secolarizzato dunque, necessariamente, disorientato. Un quesito che, con grandi probabilità, resterà senza risposta, orfano di una tradizione sapienziale che abbia retto alla prova del tempo, la stessa che nel mistico oriente libera gli uomini da tormentati quesiti di questo genere, rendendoli forse più ebeti ma senz’altro più sereni.
“Che cosa c’è in fondo a quest’oggi, di mezza festa e di quasi male”, in fondo ad una giornata di cui si sente la sostanziale inutilità, sul cui sfondo passeggiano omologate coppiette di provincia, quasi identiche le une alle altre. Passeggiano “sfilacciate”, tradendo, a ben vedere, un irreparabile senso di noia, senza indurre un sentimento che non sia di irritata indifferenza. “Gente che si frantuma in un fiato”, la cui inquietante inconsistenza porterebbe quasi, presuntuosamente, a classificarla come “de-cerebrata”. Preservata, in quanto tale, dalla sofferenza ma anche da forme pur semplici di comprensione, viva in un limbo di opaca insensatezza ed inutilità.

Ma che cosa c’e’ in fondo a questa notte,
quando l’ora del lupo guaisce
e il nuovo giorno non arriva mai, mai
e il buio e’ un fischio lontano che non finisce,
di minuti lunghi come il sudore,
di ore che tagliano come falci
e i tuoi pensieri sono un cane in chiesa
che tutti prendono a calci…


Lo stesso quesito si propone anche di notte, magari in una notte insonne quando si brama un nuovo giorno, una nuova opportunità di vita che però non arriva mai ed i minuti, le ore pesano come macigni, per usare un’immagine di Buckowski “ti si strascinano addosso come merda bagnata” ed i tuoi pensieri sono pensieri sporchi, da insonne, da persona fuori dei cicli naturali di veglia e sonno, di persona “contronatura”, macchiata da qualche peccato - originale o meno che sia - e come tali sono “un cane in chiesa”, preso, naturalmente, a calci.

Ma cosa c’è, cosa c’è:
atri a piastrelle, di stazioni secondarie,
strade più strade, di avventure solitarie,
clown della notte, valige vuote,
piene di trucchi per tragedie immaginarie

Ed il quesito continua ad assillare il cantautore, il poeta e c’è un cenno minimo di risposta, probabilmente del tutto inadeguata. Cosa c’è? Un pallido tentativo di ricerca. Di cosa? Di riscatto o semplicemente di fuga? “Atri a piastrelle di stazioni secondarie”, quelle dove finiva probabilmente Gucccini, ubriaco, nel corso delle sue notti insonni. Immagine di un minimalismo feroce, di una feroce e vagamente romantica desolazione, tanto più feroce se si ha presente cosa lo ha spinto in quelle stazioni secondarie, il solito, tremendo quesito, il koan zen: cosa c’è?! Ma non ci sono solo stazioni secondarie, ci sono i compagni di fuga del cantautore, i “clown della notte” che lui ha immortalato in altri pezzi memorabili come Per quando è tardi o L’ubriaco.
Ci sono “strade più strade di avventure solitarie” e qui l’orizzonte può, un minimo, aprirsi. Può aprirsi al viaggio, alla scelta coraggiosa di lasciarsi una vita alle spalle, forse solo temporaneamente e mettersi in cammino verso altro e poi, verso straordinario: “valige vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie”. Valige del tutto vuote di senso, di qualcosa che abbia una minima sostanza, una minima autenticità e piene, invece, delle maschere del perbenismo provinciale (la dimensione di riferimento di Guccini è spesso la provincia) che contribuiscono in maniera cruciale a depauperare la vita di un senso qualsiasi riportando violentemente alla ribalta il leitmotiv del brano: cosa c’è?!

telecomandi per i quotidiani inferni,
battute argute di architetti postmoderni,
amanti andate, piaceri a rate,
pallottolieri per contare estati e inverni.

e ancora qualche timida, del tutto inadeguata risposta. Cosa c’è? Tante cose: telecomandi per i quotidiani inferni (si commenta da sola), battute argute di architetti post-moderni, glimpses di vita quotidiana, di insulsaggini quotidiane per cui gli anni finiscono per essere, infantilisticamente, pallottolieri con cui contare, in stato semiparanoico, estati e inverni e di nuovo il leitmotiv, per forza:

Ma che cosa c’è?!
Proprio in fondo in fondo,
quando bene o male faremo due conti
e i giorni goccioleranno come rubinetti nel buio
e diremo un momento, aspetti, per non esser mai pronti.
Signora Bovary coraggio pure
tra gli assassini e gli avventurieri
in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte,
in fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora….


Qui emerge nuovamente netta, a mio parere, la tragedia dell’uomo occidentale migliore, che si interroga ma non ha fedi (“io parlo sempre tanto ma non ho ancora fedi”, commentava Guccini in un’altra canzone). Non solo non ha fedi, cosa più tragica non ha nemmeno la conoscenza. Non la cultura, di cui Guccini è stracolmo, la “gnosi”, la conoscenza di quanto regola la vita e la morte e allora, cieco di ignoranza (l’avidhya della tradizione hindu), si chiede: “cosa c’è…proprio in fondo in fondo”. C’è tutto lo sgomento, la disperazione di chi è proteso a conoscere (ad una conoscenza salvifica) e non riesce a cogliere un indizio pur vago. Forse dovrebbe semplicemente smettere di pensare, di usare l’emisfero sinistro del cervello, fare quello che fece Buddha, sedere sotto un albero, in silenzio, avendo la pazienza tutta orientale di lasciare che la verità si manifestasse ai suoi occhi chiusi.
Qui invece, “quando bene o male faremo due conti”, “i giorni goccioleranno”, ancora paranoicamente, “come rubinetti nel buio” (immagine da cella o da ospedale notturni) e saremo talmente atterriti dal grande mistero, dall’ignoto che non ci sentiremo mai pronti per affrontarlo.
La canzone finisce, tuttavia, con un invito al coraggio, forte della grama sicurezza che “in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte” (“ogni notte è un buco nero da riempire”, canta ancora Francesco). “In fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora…” il sospeso potrebbe forse lasciare qualche speranza e tuttavia l’epilogo può somigliare tanto ad un cane che si morda la coda, nell’emersione implicita, ancora una volta, del koan ossessivo: cosa c’è?

Van Loon
Stando a quel che ricordo lessi sul libro menzionato in apertura, Van Loon starebbe per “fellone” ed era il nick name (per usare un termine del moderno linguaggio informatico) del padre di Francesco Guccini. Un padre che visse un periodo in un campo di concentramento, nel corso della seconda guerra mondiale, di cui si persero a lungo le notizie e che Guccini conobbe già grandicello:

Van Loon, uomo destinato, direi da sempre, ad un lavoro più forte
che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare,
sembrò quasi baciato da una buona sorte
quando dovette andare.
Sembra però che non sia mai entrato nella storia,
sono cose che si sanno sempre dopo,
d’altra parte nessuno ha mai chiesto di scegliere
neanche all’aquila o al topo.
Poi un certo giorno timbra tutto un avvenire
od una guerra spacca come una sassata
ma ho visto a volte che anche un topo sa ruggire
ed anche un’aquila…precipitata.

Quanti anni, giorno per giorno,
dobbiamo vivere con uno,
per capire cosa gli nasca in testa, cosa voglia o chi è,
turisti del vuoto, esploratori di nessuno
che non sia io o me.
Van Loon viveva e io lo credevo morto
o, peggio, inutile solo per a distanza
tra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d’allora,
la mia ignoranza.
che ne sapevo di quanto avesse navigato,
con il coraggio di un caboto fra le schiume,
di ogni suo giorno e che uno squalo è diventato,
giorno per giorno,
pesce di fiume.


Questa canzone la sento da circa 20 anni ed ogni volta riesce ancora a commuovermi. Straordinario come la singola vicenda umana diventi un bandolo per considerazioni che trascendano la specifica individualità, illustrando problematiche universalmente umane.
Da questi primi versi iniziano ad emergere i primi vaghi lineamenti della figura paterna, distante anni luce dalla giovinezza superba del cantautore.
Ricordo questa canzone la sentivamo spesso assieme ad una mia passata fidanzata che aveva un padre simile a Van Loon. Uno di questi uomini di roccia, ossificati nei propri principi, impenetrabili e tuttavia, come vedremo, non privi di spunti metafisici, non incapaci di assurgere, forse temporaneamente e limitatamente, alla figura di maestri. Un uomo, il padre di Guccini, che aveva navigato con grande coraggio e, in questa sua navigazione, piegato da questa sua navigazione, aveva subito una significativa metamorfosi: da squalo, uomo forte che poteva ragionevolmente incutere terrore, era diventato un dimesso “pesce di fiume”.

Van Loon, Van Loon,
che cosa porti dentro quando tace,
la mente e la stagione si da pace,
insegui un’ombra o quella stessa pace,
l’hai in te.

Vorrei sapere
che cosa vedi quando guardi attorno,
lontani panorami o questo giorno
è già abbastanza è come un nuovo dono,
per te.


In questi versi a mio parere Guccini raggiunge genuine vette spirituali. Si apre a quella che è una dimensione oltre il pensiero ordinario, che subentra quando la mente tace e “la stagione si da pace”. Una pace che ritrova nella figura del padre, poco propenso alla speculazione, uomo semplice, poco mentale e proprio per questo in grado di realizzare in se stesso quella stessa pace (diventare “uno” con essa) che ritrova all’esterno, magari in un tranquillo pomeriggio di bassa montagna.
Probabilmente Guccini non riesce a nutrire una propria dimensione spirituale (non lo conosco di persona ma conosco molto bene le sue canzoni) ma rivela qui la profonda sensibilità di chi sa ritrovarla, pur in modo del tutto indecifrabile, in un altro.
A questo punto riemerge l’intellettuale illuminista, secolarizzato: “vorrei sapere (vorrei cogliere con il raziocinio, vorrei conoscere in almeno qualche dettaglio) che cosa vedi quando guardi attorno”. Siamo di nuovo alle prese con l’indecifrabilità di personaggi delle nostre passate generazioni che, nel momento in cui guardano attorno, non si sa cosa vedano, non si sa quali emozioni abbiano interiormente suscitate. “Lontani panorami e questo giorno, è già abbastanza è come un nuovo dono, per te”: un verso di altissima levatura spirituale. Guccini è ammaliato e confuso dall’uomo che contempla, inspiegabilmente sereno, lontani panorami o anche lo stesso giorno in cui sta vivendo, che non ha nulla di particolare, nulla di eccezionale e tuttavia lo vive con un’intima, profonda gratitudine, umilmente e maturamente consapevole della straordinaria pregnanza del dono, temporaneo, di vivere.

Van Loon, Van Loon,
a cosa pensi in questo settembrino,
nebbieggiare alto che macchia l’appennino,
ora che hai tanto tempo per pensare
ma a chi…

Vai vecchio vai,
non temere che avra’ una sua ragione,
ognuno ed una giustificazione
anche se quale, non sapremo mai


Guccini non riesce proprio a disidentificarsi dal pensiero. Incarna pienamente la tragedia dell’uomo occidentale che affronta la vita pensando e proiettando pensieri anche sugli altri, incapace di cogliere, ad esempio, la profonda pregnanza, riarmonizzante, del silenzio e della pura coscienza. Tuttavia, prende corpo, negli ultimi versi, una sorta di abbozzo di fede. Una sorta di resa all’imponderabile, all’indicibile che, anche da un punto di vista razionale, non può non avere una sua ragione ed una giustificazione, pur inaccessibile alla mente razionale.

Ora Van Loon si sta preparando piano al suo ultimo viaggio
I bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente,
o meglio il bagaglio quello consueto di un semplice o un saggio
cioè poco o niente
e andrà davvero in un suo luogo, una sua storia,
con tutti i libri che la vita gli ha proibito,
con vecchi amici di cui ha perso la memoria,
con l’infinito…dove anche su quei monti nostri
e’ sempre estate
ma se uno vuole quell’inverno senza affanni
che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo
dei suoi dicott’anni, dei suoi diciott’anni…


La conclusione non può che portarci nuovamente a contatto con la grande, probabilmente la più grande, problematica dell’essere umano: la morte, l’ultimo viaggio. Ultimo viaggio cui Van Loon, uomo semplice e saldo, un tempo squalo oggi con la profonda acquisita umiltà del pesce di fiume, e’ pronto da tempo. Cosa si porterà con se? Coerentemente, il bagaglio consueto di ogni semplice che, in quanto tale, ha forse più possibilità di un erudito di essere anche saggio: poco o niente.
Il finale non ha bisogno, a mio vedere, di alcun commento, per non rovinare la meravigliosa tensione lirica e l’epilogo poetico ed amaro: l’immagine di Van Loon, di nuovo giovane, appena diciottenne, che si incammina sui monti tanto cari anche a Francesco per averci speso l’infanzia e la giovinezza (fatta di “risse terrose, di campi, cortili e di strade”). Facile immaginarlo accessoriato con uno zaino militare, oltre alle scarpe chiodate sotto le quali scricchiola il gelo di un inverno senza affanni, alla volta di un dolorosissimo fronte di guerra.

Credo meriti citare, a questo punto, il grande Fabrizio De Andrè, il quale diceva: “alla fine di ogni concerto sarei tentato di dire al pubblico: tutto quello che avete sentito, è tutto falso, vi ho proposto una realtà sognata, una sorta di fiaba”. Allo stesso modo, mi viene da dire: quello che ho scritto arrogandomi il diritto di fare considerazioni sui capolavori di un altro non ha davvero nulla di oggettivo, è solo il prodotto di una risonanza che sto avendo da anni con questi due brani e che ho voluto condividere con i lettori di Viverealtrimenti.
Mi scuso con Franscesco Guccini (che spero un giorno di conoscere anche per inserirlo in un prossimo progetto editoriale) se ho azzardato giudizi impropri o mi sono permesso di entrare nel suo intimo.
Il sole continua ad indugiare dietro le spesse tende del mio resort nepalese. Pensando al monastero di Kapan dove sono diretto questa mattina, ai monaci in vestaglia bordeaux e al loro essere spesso al di sotto delle aspettative che nutriamo nei loro confronti, ho apprezzato ancora di più la genuinità della ricerca esistenziale che emerge dai due brani citati.
Ho pensato quanto spesso, da questa parte del mondo, la gente viva in monasteri perchè vi è stata messa, spesso dall’infanzia, da altri: genitori, tradizione, miseria e dunque quanto alcune figure di monaci possano aver preso i trucchi dalle valige vuote di Signora Bovary, ad uso e consumo di “tragedie immaginarie”.
E tuttavia, in posti come Kapan ed in tanti altri in Oriente, il quesito ossessivo “cosa c’è” si scioglie spesso come neve al sole, lasciando spazio ad un’impercettibile eco, nel quasi silenzio mentale, che si sostanzia in una mite ma determinata assunzione: “qualcosa c’è!” ed è probabilmente per questa ragione che mi sono così intestardito a preferire questi luoghi a quelle che io considero, oramai, “le secche dell’Occidente”.