Una buona presentazione, dell'antropologa Cristina Salvadori, del fenomeno del cohousing.
Buona lettura!
Breve introduzione all’argomento
All’interno del panorama delle forme alternative di vita è possibile trovare anche opportunità meno radicali e in un certo senso più vicine al vivere quotidiano a cui siamo abituati.
Se gli ecovillaggi rappresentano infatti una valida alternativa per coloro che desiderano tenere lontane quelle che sono considerate le principali rappresentanze della vita moderna (frenesia della città, insostenibili ritmi lavorativi, costo elevato della vita, inquinamento e problemi ambientali, perdita della dimensione umana), è anche vero che essi richiedono un cambiamento abbastanza radicale rispetto alla vita alla quale siamo abituati. Far parte di una comunità non è una scelta riduttiva poiché richiede un consistente impegno e forse anche una certa predisposizione alla vita in comune e a tutto ciò che essa comporta. Si tratta sicuramente di una scelta capace di rispecchiare al meglio la volontà di cambiamento in senso ecosolidale, ma allo stesso tempo è anche una tra le più difficili proprio per quanto riguarda la messa in pratica di tali propositi, dato che coinvolge interamente i partecipanti.
Dall’altra parte abbiamo invece tutti coloro che vorrebbero in qualche modo agire sul fronte del cambiamento in senso ecologico e solidale, ma non possiedono gli strumenti giusti per farlo o più semplicemente non desiderano intraprendere la strada proposta dagli ecovillaggi. Dobbiamo tuttavia dar credito a chi nel suo piccolo si impegna a migliorare anche solo un po’ la propria realtà e quella dell’ambiente circostante pur rimanendo all’interno di stili di vita ormai ordinari e pervasivi, ma dobbiamo anche precisare che in questo caso non si può parlare di alternative di vita. Si tratta di quei piccoli gesti che incidono sicuramente a livello di coscienza individuale e che fanno la loro piccola differenza, ma che non possono essere considerate alla stregua di proposte alternative di vita, almeno in questo contesto.
Esiste allora una via di mezzo? Il cohousing probabilmente risponde in maniera affermativa a questa domanda. Se prendiamo come punto di partenza il normale stile di vita che pervade la nostra società possiamo notare che l’idea di un condominio solidale possa essere collocata proprio tra una scelta radicale di vita -connessa ad un cambiamento totale- e una realtà molto più usuale. Innovativo, ma senza troppi stravolgimenti di abitudini, il cohousing propone un certo impegno e una specifica attenzione sul fronte dei consumi, dell’ecologia, della condivisione e della dimensione umana.
Un numero crescente di persone -specie gli abitanti dei grandi centri urbani- sta mostrando sempre più il desiderio di recuperare i perduti rapporti di socialità quotidiana, insieme anche ad un rinnovato bisogno di rispetto per l’ambiente circostante, ma non tutti sono pronti a lasciare del tutto la propria vita per gettarsi nell’esperienza delle comunità e degli ecovillaggi. Il cohousing allora può inserirsi proprio qui: diviene il compromesso o forse il giusto mezzo adatto a chi ha voglia di cambiare, ma non del tutto. A livello puramente generale possiamo quindi definire, o meglio, interpretare il cohousing come una “via di mezzo” all’interno del panorama delle possibili soluzioni di vita poiché sembra che la forma intermedia sia proprio l’essenza stessa del cohousing sia per quanto riguarda le sue caratteristiche organizzative che per la sua ideologia.
Nel cohousing infatti spazi privati e spazi comuni coesistono senza eccessiva interferenza l’uno con l’altro: la privacy e l’indipendenza di ciascun partecipante vengono garantite assieme al soddisfacimento di esigenze collettive sempre più diffuse, quali il bisogno di socialità, l’attenzione all’ambiente circostante, la gestione di pratiche quotidiane sempre più complesse e onerose. Il connubio pubblico/privato rende quindi il cohousing un’esperienza più complessa e articolata rispetto ai tradizionali condomini o quartieri residenziali perché attenta a particolari esigenze, ma diversa dalle comunità e dagli ecovillaggi che richiedono appunto un coinvolgimento più intenso e una condivisione pressoché totale. La particolarità di questa tipologia di struttura è che lascia inalterate le vite quotidiane degli abitanti, le loro abitudini e le loro visioni, riuscendo al tempo stesso a promuovere uno stile di vita rispondente ai bisogni sociali, economici e ambientali che emergono sempre più nelle odierne società occidentali.
Il bisogno di comunità che sembra essere riemerso negli anni della modernità e dell’urbanizzazione può quindi trovare una certa dose di soddisfazione anche nel cohousing oltre che nelle forme di vita strettamente comunitarie quali sono gli ecovillaggi. Il desiderio e l’esigenza di una condivisione e di una socialità partecipata può realizzarsi in maniera moderata nei condomini solidali nei quali è possibile condurre autonomamente la propria vita quotidiana nella propria abitazione e allo stesso tempo condividere risorse e spazi comuni, con un bilancio positivo dei benefici dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
E’ quindi sul suo essere moderato -in quanto forma intermedia tra le soluzioni alternative- che dovrebbe essere puntato l’obiettivo: l’essenza stessa e quindi il suo punto di forza dovrebbe essere ricercato proprio nella capacità di sapersi inserire nel mezzo tra “radicale” e “abituale”, prendendo vantaggi da entrambe le forme e sapendole combinare insieme nelle giuste dosi.
Con questo non vogliamo ovviamente asserire che si tratti della formula perfetta di abitazione: il nostro sguardo rimane sempre relativo e pronto anche a individuarne i limiti, i punti deboli della struttura ed ogni eventuale svantaggio, ma consapevoli del fatto che, nonostante l’inevitabile presenza di fragilità, esso possa comunque essere interpretato come una forma moderata di vita alternativa.
Oggi la sensibilità a particolari temi sta iniziando a diventare sempre più popolare e sempre più percepita come fondamentale, con la diretta conseguenza che sono sempre più numerose le spinte a rivalutare e riconsiderare le condizioni materiali all’interno delle quali ci siamo ritrovati a vivere. Di pari passo alla presa di coscienza procedono le soluzioni che ciascuno si adopera a cercare e a mettere in pratica e, come dicevamo, queste si mostrano all’interno di uno spettro abbastanza ampio che va dai cambiamenti totali di vita a piccole e individuali azioni quotidiane. Nel mezzo troviamo invece quelle “sfumature” che richiedono sì un certo impegno per la loro riuscita, ma senza esagerare e che sono comunque in grado di rappresentare una valida alternativa di vita e una risposta alle esigenze materiali e non emerse negli ultimi tempi. Tra queste possiamo quindi collocare il cohousing, una “via di mezzo” del vivere altrimenti.
Un tentativo di definizione
Dopo questa breve introduzione interpretativa del cohousing cerchiamo di fornire una definizione più precisa, o se vogliamo più “tecnica”, del fenomeno.
Il cohousing è spesso descritto anche da termini quali “co-residenza”, “vicinato elettivo”, “comunità di vicinato”, “condominio solidale”: tutte definizioni che si adattano abbastanza bene al nostro oggetto tanto da poter essere considerate intercambiabili tra loro. Esso è prima di tutto un modo di vivere basato sulla coresidenza (e non sulla coabitazione) che si propone di mantenere l’indipendenza e l’autonomia di ciascun nucleo familiare (o di ciascun singolo individuo) sfruttando allo stesso tempo i vantaggi socio-economici della condivisione di spazi e servizi (per esempio laboratori per il fai da te, auto in comune, palestre, stanze per gli ospiti, orti, giardini, lavanderie-stirerie, nursery, ect). Si presenta quindi come una possibilità di risposta alla rinnovata esigenza di ricomposizione del tessuto sociale e comunitario propria delle società occidentali e come soluzione pratica ai problemi economici e organizzativi tipici della modernità.
Tecnicamente quindi il cohousing consiste in "un insediamento di 20-40 unità abitative, per famiglie e single, che si sono scelti tra loro e hanno deciso di vivere come una “comunità di vicinato”per poi dar vita -attraverso un processo di progettazione partecipata- alla realizzazione di un “villaggio” dove coesistono spazi privati (la propria abitazione) e spazi comuni (i servizi condivisi)" (Fonte: sito ufficiale del cohousing in Italia, www.cohousing.it).
Il punto di partenza è dunque quello di un gruppo di persone che hanno deciso di mettere in pratica un progetto residenziale che prevede la combinazione di abitazioni autonome e luoghi o spazi aperti collettivi, questi ultimi scelti di comune accordo in base alle esigenze e agli interessi dei partecipanti. Quello che ne viene fuori è quindi un centro abitativo socialmente condiviso e partecipato: i cohousers lo creano in prima persona e allo stesso modo lo animano sviluppando così una parziale forma di vita comunitaria a partire da esigenze tipicamente odierne come il rispetto ambientale, il rimedio alla solitudine dell’individuo e del cittadino, l’abbattimento dei costi quotidiani, la cooperazione, la collaborazione e la dimensione umana nelle sue esigenze di socialità. Come possiamo vedere "la progettazione partecipata riguarda sia il progetto edilizio vero e proprio -dove il design stesso facilita i contatti e le relazioni sociali –sia il progetto di comunità: cosa e come condividere, come gestire i servizi e gli spazi comuni" (stessa fonte).
La riflessione sull’oggetto da realizzare e sviluppare è quindi in comune e condivisa da tutti i partecipanti: questo rende il cohousing una struttura abitativa elastica, modellata sulle necessità del gruppo che la costruisce. Nonostante la presenza di uno schema di riferimento prefissato, le comunità di cohousing non possono essere per loro natura rigide e nemmeno imposte: l’organizzazione interna, le attività svolte, la tipologia e la dimensione della struttura e dei relativi spazi comuni sono decise e stabilite da chi si prepara a creare il nucleo residenziale ed andrà successivamente ad abitarlo. Senza questa base di partecipazione collegiale viene a cadere l’essenza stessa del cohousing e quindi la sua realizzazione.
Abbiamo già accennato a quelli che possono essere in linea generale le ragioni che spingono alla ricerca e quindi alla creazione di soluzioni di vita alternative o complementari agli stili caratteristici delle società occidentali. Le cause possono essere raggruppate in tre ordini di motivazioni: ecologiche (inquinamento e maltrattamento della natura che hanno portato alla ricerca di un rispetto per l’ambiente circostante e quotidiano attraverso uno stile di vita ecosostenibile), sociali (isolamento dell’individuo moderno causato dalle realtà cittadina ed urbane, dalla perdita dei valori e della dimensione sociale dell’uomo da ricreare attraverso rinnovate forme di condivisione e partecipazione collettiva), economiche (onerosità della vita quotidiana che richiede spese continue e sempre più insostenibili, da poter gestire in maniera meno gravosa grazie alla via della condivisione e della collaborazione). In maniera un po’ più semplicistica esse coincidono schematicamente con le motivazioni di fondo delle odierne comunità ed ecovillaggi, mettendo ancora una volta in evidenza la possibilità di una via più moderata e meno radicale ugualmente in grado di soddisfare le esigenze sopra citate.
Nel cohousing è quindi possibile soddisfare un bisogno ecologico rivalutando spazi aperti, utilizzando energie rinnovabili, condividendo servizi dispendiosi e inquinanti (per esempio condividendo le auto o elettrodomestici quali le lavatrici o i congelatori), realizzando giardini e orti in comune.
In secondo luogo la collocazione urbana o semiurbana rende il cohousing "una valida soluzione contro la crescente atomizzazione e solitudine delle grandi città della nostra epoca" (Sapio A. -a cura di-, Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2010, pp. 130-131) oltre che una soluzione meno radicale rispetto alla fuga da esse. Il fenomeno dell’urbanizzazione ha raggiunto oggi livelli veramente elevati e se da una parte le città sono in grado di attrarre per le numerose occasioni offerte, "allo stesso tempo spaventano per le difficoltà crescenti del vivere" (Ibidem). L’altro fattore riguarda invece la dimensione stessa del cittadino in quanto abitante: "in centri abitati così popolosi è sempre più difficile preservare le proprie radici mentre l’individualismo e lo sfaldamento della coesione sociale rendono, al contrario, l’individuo sempre più solo e con una bassa percezione di sicurezza sociale. In questo contesto di grave mutamento epocale, il problema principale è senza dubbio la perdita di coesione sociale e la disgregazione della vita comunitaria a cui il cohousing tenta proprio di dare una risposta" (Ibidem).
Infine la dimensione economica. Il costo della vita sempre più elevato a partire dalle esigenze primarie, l’aumento dei bisogni indotti dall’economia di mercato, la crisi economica e tutto ciò che ne scaturisce rendono la vita sempre più gravosa dal punto di vista finanziario. Il cohousing in questo senso si pone come sostegno alla crescente complessità della vita urbana, ammortizzando determinati costi e contribuendo a forme di risparmio grazie alle varie modalità di cooperazione e di condivisione alle quali dà luogo.
Riassumendo quindi possiamo vedere che le motivazioni del cohousing prendono vita da una particolare attenzione per l’ambiente circostante di vita quotidiana nel quale i cohousers si adoperano a ricercare ed instaurare dimensioni di relazionalità, solidarietà e di conseguenza di buon vicinato al fine anche di ridurre il più possibile la complessità della vita e i costi di gestione delle attività quotidiane.
Per una definizione ancora più precisa dell’oggetto riportiamo anche quelli che sono stati identificati come i tratti comuni dei condomini solidali ovvero le caratteristiche del cohousing (citando ancora il sito www.cohousing.it).
1. Progettazione partecipata. I futuri abitanti partecipano direttamente alla progettazione del villaggio in cui andranno ad abitare scegliendo i servizi da condividere e il modo di gestirli.
2. Vicinato elettivo. Le comunità di cohousing sono elettive: aggregano persone dalle esperienze differenti, che scelgono di formare un gruppo promotore e si consolidano con la formazione di una visione comune condivisa.
3. Comunità non ideologiche. Non ci sono principi ideologici, religiosi o sociali alla base del formarsi di comunità di coresidenza, così come non ci sono vincoli specifici all’uscita dalla stessa.
4. Gestione locale. Le comunità sono amministrate direttamente dagli abitanti che si occupano anche di organizzare i lavori di manutenzione e della gestione degli spazi comuni.
5. Struttura non gerarchica. Nelle comunità si definiscono responsabilità e ruoli di gestione degli spazi e delle risorse condivise (in genere in relazione agli interessi e alle competenze delle persone) ma nessuno esercita alcuna autorità sugli altri membri, le decisioni sono prese sulla base del consenso.
6. Sicurezza. Il cohousing offre la garanzia di un ambiente sicuro, con forme alte di socialità e collaborazione, particolarmente idoneo per la crescita dei bambini e per la sicurezza dei più anziani
7. Design e spazi per la socialità. Il design degli spazi facilita lo sviluppo dei rapporti di vicinato e incrementa il senso di appartenenza ad una comunità.
8. Servizi a valore aggiunto. La formula del cohousing, indipendentemente dalla tipologia abitativa, consente di accedere, attraverso la condivisione, a beni e servizi che per il singolo individuo hanno costi economici alti
9. Privacy. L’idea del cohousing permette di coniugare i benefici della condivisione di alcuni spazi e attività comuni, mantenendo l’individualità della propria abitazione e dei propri tempi di vita.
10. Benefici economici. La condivisione di beni e servizi consente di risparmiare sul costo della vita perché si riducono gli sprechi, il ricorso a servizi esterni, il costo dei beni acquistati collettivamente. La formula del cohousing (indipendentemente dalla tipologia abitativa) consente infatti di accedere, attraverso la condivisione, a beni e servizi più dispendiosi da ottenere singolarmente.
11. Autonomia economica. La comunità non è una fonte di reddito per i suoi membri. Occasionalmente può pagare uno dei suoi residenti per un lavoro specifico (solito limitato nel tempo), ma più generalmente il lavoro consiste nel contributo che ciascun membro offre per la condivisione delle responsabilità.
In conclusione possiamo quindi confermare che il punto di forza del cohousing sembra essere proprio la conservazione della sfera privata in tutte le sue componenti (lavoro, stile di vita, economia, ideologia ect.) costruita attorno ad un tessuto sociale di riferimento e rappresentato dalla comunità di vicinato della residenza elettiva, capace di restituire un senso di appartenenza e di condivisione, il tutto completato da vantaggi economici ed ambientali.
Alcuni accenni storici
Per rendere più completa questa serie di informazioni sul cohousing ci accingiamo a fornire anche qualche notizia storica sulle origini e la successiva evoluzione del fenomeno.
Il cohousing è un “prodotto” di origine scandinava: la prima esperienza riconducibile a tale forma di coresidenza si è avuta infatti in Danimarca negli anni ’70; da qui si è rapidamente diffusa anche negli altri paesi nordici per poi estendersi negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni ed infine nell’Europa meridionale.
Il cohousing nasce come risposta ad alcuni bisogni emersi dai caratteri propri delle moderne società nord-occidentali: l’affermazione incontrastata dell’individualismo, la caduta delle reti parentali tradizionali e la fragilità del welfare statale sono cose già visibili nei paesi scandinavi all’inizio degli anni ’70. Si inizia così ad avvertire l’esigenza di supportare determinati servizi e soprattutto di ricreare forme di socialità perdute negli stili di vita tipicamente moderni.
Non dobbiamo inoltre scordare il fermento che coinvolge i paesi più industrializzati nel periodo in questione: la rivoluzione giovanile made in USA degli anni Sessanta, il movimento studentesco del ’68 e il femminismo spingono verso forme di innovazione sociale che investono di conseguenza anche il modo di abitare sia nello spazio che nella dimensione relazionale con gli altri. Il XX secolo ha visto infatti fiorire una nuova fase in termini di convivenza sociale fatta di proposte e di realizzazioni di comuni e comunità, a partire da quelle hippy degli anni ’60 e ’70 per arrivare a forme più organizzate come gli odierni ecovillaggi.
Data la coincidenza storica possiamo quindi rintracciare l’origine del cohousing all’interno di tutte quelle innovazioni che hanno caratterizzato la metà del secolo sulla spinta dei movimenti giovanili -promotori di un rinnovamento dei valori e delle forme sociali di vita e di relazione- e considerarlo quindi "un tentativo originale di reintrodurre relazioni sociali tipiche delle società pre-industriali nella realtà post-industriale odierna, anonima e impersonale" (Sapio A. -a cura di-, Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2010, pp. 129).
Secondo McCamant e Durrett (promotori di questo movimento residenziale negli Stati Uniti) lo stile di vita del cohousing non è del tutto nuovo in quanto ripropone le caratteristiche proprie delle società preindustriali nelle quali i centri abitati basavano la loro struttura e organizzazione su legami interpersonali, permettendo così solide relazioni sociali in funzione dei contesti vissuti e degli spazi condivisi. La compartecipazione allo stesso tessuto sociale comporta una maggiore attenzione verso lo stesso che può portare a benefici collettivi nonché ad un aumento del senso di sicurezza e di appartenenza sociale.
Il cohousing quindi sembra proprio voler riportare alle luce tali caratteristiche, riproponendole in maniera innovativa e adattandole alle esigenze dei tempi e della modernità offrendo "un modello di coesistenza abitativa che consente di riportare questo senso di appartenenza a un luogo e a una comunità specifici, preservando, nel contempo, le esigenze di autonomia e indipendenza di ciascuno" (Ivi, p. 30).
Sulla base di quanto detto sopra possiamo quindi vedere come il cohousing trovi le sue origini all’interno di quel clima di rinnovamento proprio degli anni ’60 e ’70 che a sua volta richiama la necessità di un ritorno alle radici preindustriali della socialità e dei valori di riferimento. Tali origini tuttavia non devono portarci a pensare al cohousing come ad una forma tradizionale di comunità: esso tende a manifestare la sua diversità e il suo diverso sviluppo rispetto alle forme di vita collettive degli anni passati e di quelle odierne.
Ripercorriamo dunque le principali tappe della sua diffusione.
Come già accennato, il cohousing nasce in Danimarca con una prima esperienza di condominio solidale nel 1972. Dall’ideologia che ne sta alla base tale esperimento mostra fin da subito una certa continuità e connessione con il movimento studentesco del ’68 e con l’ondata di rinnovamento che esso comporta, anche in merito alle forme comunitarie di vita. Fin dall’inizio però il cohousing tende a differenziarsi con esse per l’importanza attribuita al mantenimento della privacy e degli spazi individuali proponendosi come forma intermedia tra le comuni vere e proprie e i condomini residenziali.
La prima struttura danese nasce nel 1972 a Skraplan dal progetto di Jan Godmand Hoyer, un architetto influenzato da un articolo dello psicologo Bodil Graae del 1967 nel quale lo specialista tende a mettere in discussione la famiglia nucleare alla luce della nuova cultura post moderna. Il primo esperimento di cohousing era concepito per 27 famiglie: oggi invece gran parte delle famiglie danesi vivono in strutture di cohousing molte delle quali con uno spiccato accento di tipo ambientalista (come la comunità residenziale a Munksoegaard, vicino Roskilde costituita da case di paglia e argilla).
Dalla Danimarca il progetto si espande con facilità nella vicina Svezia, un paese caratterizzato da una lunga tradizione di vita comunitaria. Con gli stessi elementi di continuità del precedente, il fenomeno prende piede senza problemi in questo paese scandinavo, con un buon riscontro sia da parte della popolazione che delle istituzioni. Una particolarità tipica della Svezia sono infatti gli investimenti da parte degli enti pubblici nella costruzione e nella promozione dei condomini residenziali: gran parte delle strutture di cohousing sono pubbliche e di proprietà delle amministrazioni locali (al contrario degli altri paesi nei quali sono invece private). Anche qui i primi esperimenti iniziano negli anni ’70 per poi svilupparsi notevolmente nel decennio successivo grazie al riconoscimento ufficiale e al sostegno da parte degli enti pubblici.
La più grande comunità di cohousing svedese è Stoplyckan, costituita da oltre 400 persone, 184 appartamenti e 13 condomini.
Altro paese protagonista di questa prima ondata di diffusione del cohousing è l’Olanda. Il movimento culturale dei condomini solidali trova la sua origine sul finire degli anni ’60 nelle città universitarie olandesi (Amsterdam, Utrech, Tilburg), centri propulsori di proposte innovative da parte dei giovani. Il fulcro di questa volontà di cambiamento viene individuato nell’ideazione di modelli sociali incentrati sulla persona, sui valori di cooperazione e sull’uguaglianza tra i sessi (punto sul quale ha influito molto il movimento femminista).
Negli anni ‘70 queste proposte trovano una concretizzazione con la costruzione dei primi cohousing: anche qui si presentano come strutture finalizzate a sostenere il contatto tra persone creando un tessuto sociale di vicinato molto più solido e integrato rispetto ai tradizionali condomini. Caratteristica olandese è l’organizzazione in circoli (clusters) ovvero ciascun nucleo residenziale possiede i propri spazi comuni (sala, cucina, lavanderia) mentre l’intera comunità residenziale possiede un edificio comune per gli incontri collettivi dei membri.
Ad una prima fase di nascita e sviluppo del cohousing in nord Europa a partire dagli anni ’70, si assisterà, circa un ventennio dopo, ad una sua diffusione oltre oceano.
Sul finire degli anni ’80 due architetti statunitensi Kathryn McCamant e Charles Durrett decidono di visitare e di intraprendere uno studio sulle strutture residenziali di vicinato danesi. Al loro rientro negli Stati Uniti pubblicano il libro Cohousing: A contemporary approach to housing ourselves (Ten Speed Press, Berkeley, CA, USA, 1993) che ottiene un enorme successo tanto da diventare la guida del movimento culturale del cohousing statunitense. Il cohousing trova così il suo sviluppo negli USA, sempre pronti ad accogliere forme sperimentali e alternative di vivere, con un riscontro positivo da parte della popolazione.
Dallo sviluppo americano del cohousing si è poi passati alla sua diffusione negli altri paesi anglosassoni: prima in Australia (dove erano già presenti forme di ecovillaggi) e in Nuova Zelanda e poi nel Regno Unito. Infine la sua diffusione a livello globale ha toccato anche il Giappone.
All’inizio del III millennio il fenomeno cohousing ha iniziato a scendere anche verso l’Europa meridionale. Anche se in ritardo esso ha comunque mostrato fin da subito una certa diffusione e un vivace dibattito sui temi relativi alle nuove esigenze abitative. Il cohousing ha cominciato quindi a mostrare la sua presenza in Spagna e in Francia, mostrandosi come possibile modello abitativo per le giovani famiglie. In Italia, a partire dal 2006 (o forse anche già da prima), si è registrata un’interessante partecipazione su potenziali progetti di cohousing sul suolo nazionale e un vivace dibattito sulla loro realizzazione che ha portato alla nascita dei primi esperimenti.
Come possiamo vedere, il fenomeno è attualmente limitato –sia per nascita che per sviluppo successivo- all’interno delle moderne società occidentali. Dall’origine scandinava si è divulgato a livello globale, ma rimanendo circoscritto a specifici contesti occidentali di cultura post industriale. Questo però non deve portare a credere ad un arresto della sua propagazione o evoluzione: le prospettive future hanno tutte le credenziali per portare a credere in una diffusione veramente globale del fenomeno (con i tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso), anche se questo al momento può essere sostenuto solo sotto forma di potenza. Il destino del cohousing a livello globale resta quindi per adesso un argomento da riservare al futuro.
Brevi accenni sull’esperienza italiana
Come già accennato, in Italia il movimento del cohousing sta iniziando a muoversi con la messa a punto di alcuni progetti e con un vivace dibattito che quantomeno riesce a mantenere il tema sulla scena. Non possiamo comunque parlare di una vera e propria diffusione del fenomeno o di una sua conoscenza di ampio raggio: la cosa è ancora limitata agli addetti ai lavori e a tutti coloro che si mostrano interessati a temi affini, comprese le forme alternative di vita. Complice di questo è il ritardo con il quale il fenomeno ha raggiunto il nostro Paese e l’attaccamento alle tradizioni e alle forme di vita tradizionali e ordinarie ancora abbastanza radicate, seppur con tutti gli stravolgimenti del nucleo familiare tipici della modernità.
L’Italia ha conosciuto infatti pochi esperimenti comunitari all’epoca dei movimenti giovanili di rivolta: se per le nazioni nord-europee e gli Stati Uniti gli anni ’60 e ’70 hanno rappresentato un terreno di partenza per l’elaborazione e la sperimentazione di nuove forme alternative di vita tuttora vitali e funzionanti, per l’Italia questo periodo si è risolto con poche azioni pratiche e quasi tutte fallimentari. Tuttavia l’odierno movimento comunitario degli ecovillaggi sta prendendo sempre più piede, con una solida rete nazionale di rappresentanza e l’insediamento di queste forme di vita in svariate regioni italiane, diverse anche da quelle di storica tradizione comunitaria (Toscana, Piemonte, Veneto, Lombardia). Data la crescente diffusione del movimento comunitario e delle forme alternative di vita, possiamo aspettarci quindi anche la crescita di quello della coresidenza.
L’Europa meridionale ha visto arrivare la forma abitativa del cohousing solo nei primi anni del III millennio, in ritardo anche rispetto alle forme di vita comunitarie dei villaggi ecologici. Di conseguenza anche in Italia siamo all’inizio: risulta perciò un po’ difficile poter parlare con precisione di incidenza del fenomeno, dei suoi sviluppi, delle possibili forme di realizzazione e dei loro eventuali esiti.
Secondo Lietaert è all’incirca dal 2006 che è possibile registrare la presenza di una discussione mediatica legata alla diffusione del cohousing e alla presentazione di alcuni progetti di realizzazione per i quali sembrano prevalere almeno due modelli operativi, uno di stampo statunitense e uno danese. Il primo prevede la presenza di agenzie che agiscono come mediatori nella realizzazione del progetto: un’equipe di esperti (architetti, immobiliaristi, psicologi) viene messa a disposizione dei potenziali cohousers per realizzare il progetto di coresidenza che più si adatta alle esigenze dei partecipanti, intraprendendo insieme ad essi un vero e proprio percorso di formazione che ha come obiettivo la realizzazione finale del cohousing. Un esempio tra tutti è l’attività svolta a Milano dalla Innosense Cohousing Ventures, una compagnia di promozione e supporto nata dall’incontro di due realtà cittadine quali l’agenzia per l’innovazione sociale Innosense Partnership e il Dipartimento INDACO del Politecnico di Milano.
Il secondo modello è invece di ispirazione danese e prevede, al contrario, una gestione autonoma del processo di ideazione e realizzazione del cohousing, senza alcuna mediazione da parte di enti esterni. Sono quindi i futuri cohousers che si muovono in maniera indipendente alla ricerca delle abitazioni, occupandosi anche del contatto con gli enti locali, della gestione giuridica e burocratica, dell’organizzazione interna con un notevole risparmio sui costi di realizzazione, ma con lo svantaggio di un inevitabile allungamento dei tempi.
Le regioni italiane che hanno mostrano un primo interesse verso il fenomeno del cohousing sono quelle del centro-nord: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Toscana, confermando così la tendenza nazionale nei confronti dell’innovazione ovvero la sua iniziale diffusione a partire dal nord del Paese e dalle sue zone urbane e industriali. I primi progetti che possiamo iniziare ad elencare –siano essi già concretizzati o in fase di realizzazione- hanno infatti come protagonista principale la città di Milano e la sua periferia urbana.
Tra i centri già realizzati troviamo:
-Cohousing TerraCielo a Rodano, nei pressi di Milano. Il centro residenziale prevede 60 appartamenti (da 50 a 170 mq) e 400 mq tra spazi comuni coperti, orti, giardini e frutteti; una realizzazione praticamente totale in termini di ecosostenibilità con l’utilizzo della geotermia e del fotovoltaico e la possibilità di utilizzo di una rete di GAS (gruppi di acquisto solidale) per la spesa alimentare (per maggiori informazioni rimandiamo al sito www.terracielo.biz);
-Urban Village Bovisa, il primo cohousing italiano realizzato in un ex opificio e attivo dal 2009. Formato da 32 famiglie che vivono in loft e mansarde con garage e piccoli giardini privati e 140 mq di spazi comuni (living condiviso, lavanderia e stireria, hobby room, deposito GAS, piscina, solarium).
Altri in fase di realizzazione:
-Greenhouse, un complesso di 36 appartamenti nel quartiere Lambrate di Milano che dovrebbe vedere il completamento proprio a fine 2012. Il progetto prevede la realizzazione di abitazioni autonome e dei consueti spazi comuni, la presenza di una serra verticale per la produzione di frutta e ortaggi predisposta all’utilizzo collettivo delle famiglie che vi andranno a vivere e l’utilizzo totale delle energie rinnovabili;
-Cohttage, un progetto che prevede di nascere alla fine del 2013 dal recupero di una cascina nel quartiere di Trenno a Milano. Questo cohousing prevede 20 unità abitative di svariate tipologie e 200 mq di spazi comuni;
-Residance e Cosycoh, progetti pilota (i primi in Europa) di cohousing in affitto a Milano. L’intento in questo caso è quello di offrire delle possibilità abitative a prezzi agevolati (si parla di cifre che ruotano attorno ai 10 euro al mq), insieme alla possibilità di socializzare e condividere le esperienze di vita quotidiana. Anche in questo caso è prevista la presenza di appartamenti privati e di una sala di circa 65 mq in comune oltre ai vari servizi condivisi. Questo tipo di progetto si rivolge soprattutto ai giovani (studenti e non), molto spesso alle prese con problemi abitativi nelle grandi città causati da spese di affitto e di gestione troppo onerose;
-Cohlonia, a Calambrone in provincia di Pisa. Questo progetto nasce dalla ristrutturazione delle vecchia colonia Regina del Mare già ex Villa Rosa Maltoni Mussolini a 100 metri dal mare della costa pisana. Il progetto prevede presenza di 60 nuclei abitativi, 20.000 mq di parco comune e 500 mq di spazi condivisi predisposti a diventare il centro della vita comunitaria della residenza;
-Aquarius, un progetto di cohousing per senior (cinquantenni e oltre) da conseguire con il recupero di Villa Cridis a Cossato (Biella) su una superficie complessiva di 3.000 mq all’interno di un parco di 15.000 mq. E’ prevista la realizzazione di 40 appartamenti indipendenti (da 40 a 90 mq) e almeno 200 mq di spazi condivisi (salotto, lavanderia, area salute, ambulatorio medico, giardino).
Sempre in Piemonte, vediamo che anche la città di Torino si è resa partecipe alla diffusione del cohousing con l’Associazione Coabitare (www.coabitare.org) la quale si occupa di promuovere e sostenere le varie iniziative di coresidenza e i progetti all’interno del centro urbano, tra cui segnaliamo:
Buona lettura!
Breve introduzione all’argomento
All’interno del panorama delle forme alternative di vita è possibile trovare anche opportunità meno radicali e in un certo senso più vicine al vivere quotidiano a cui siamo abituati.
Se gli ecovillaggi rappresentano infatti una valida alternativa per coloro che desiderano tenere lontane quelle che sono considerate le principali rappresentanze della vita moderna (frenesia della città, insostenibili ritmi lavorativi, costo elevato della vita, inquinamento e problemi ambientali, perdita della dimensione umana), è anche vero che essi richiedono un cambiamento abbastanza radicale rispetto alla vita alla quale siamo abituati. Far parte di una comunità non è una scelta riduttiva poiché richiede un consistente impegno e forse anche una certa predisposizione alla vita in comune e a tutto ciò che essa comporta. Si tratta sicuramente di una scelta capace di rispecchiare al meglio la volontà di cambiamento in senso ecosolidale, ma allo stesso tempo è anche una tra le più difficili proprio per quanto riguarda la messa in pratica di tali propositi, dato che coinvolge interamente i partecipanti.
Dall’altra parte abbiamo invece tutti coloro che vorrebbero in qualche modo agire sul fronte del cambiamento in senso ecologico e solidale, ma non possiedono gli strumenti giusti per farlo o più semplicemente non desiderano intraprendere la strada proposta dagli ecovillaggi. Dobbiamo tuttavia dar credito a chi nel suo piccolo si impegna a migliorare anche solo un po’ la propria realtà e quella dell’ambiente circostante pur rimanendo all’interno di stili di vita ormai ordinari e pervasivi, ma dobbiamo anche precisare che in questo caso non si può parlare di alternative di vita. Si tratta di quei piccoli gesti che incidono sicuramente a livello di coscienza individuale e che fanno la loro piccola differenza, ma che non possono essere considerate alla stregua di proposte alternative di vita, almeno in questo contesto.
Esiste allora una via di mezzo? Il cohousing probabilmente risponde in maniera affermativa a questa domanda. Se prendiamo come punto di partenza il normale stile di vita che pervade la nostra società possiamo notare che l’idea di un condominio solidale possa essere collocata proprio tra una scelta radicale di vita -connessa ad un cambiamento totale- e una realtà molto più usuale. Innovativo, ma senza troppi stravolgimenti di abitudini, il cohousing propone un certo impegno e una specifica attenzione sul fronte dei consumi, dell’ecologia, della condivisione e della dimensione umana.
Un numero crescente di persone -specie gli abitanti dei grandi centri urbani- sta mostrando sempre più il desiderio di recuperare i perduti rapporti di socialità quotidiana, insieme anche ad un rinnovato bisogno di rispetto per l’ambiente circostante, ma non tutti sono pronti a lasciare del tutto la propria vita per gettarsi nell’esperienza delle comunità e degli ecovillaggi. Il cohousing allora può inserirsi proprio qui: diviene il compromesso o forse il giusto mezzo adatto a chi ha voglia di cambiare, ma non del tutto. A livello puramente generale possiamo quindi definire, o meglio, interpretare il cohousing come una “via di mezzo” all’interno del panorama delle possibili soluzioni di vita poiché sembra che la forma intermedia sia proprio l’essenza stessa del cohousing sia per quanto riguarda le sue caratteristiche organizzative che per la sua ideologia.
Nel cohousing infatti spazi privati e spazi comuni coesistono senza eccessiva interferenza l’uno con l’altro: la privacy e l’indipendenza di ciascun partecipante vengono garantite assieme al soddisfacimento di esigenze collettive sempre più diffuse, quali il bisogno di socialità, l’attenzione all’ambiente circostante, la gestione di pratiche quotidiane sempre più complesse e onerose. Il connubio pubblico/privato rende quindi il cohousing un’esperienza più complessa e articolata rispetto ai tradizionali condomini o quartieri residenziali perché attenta a particolari esigenze, ma diversa dalle comunità e dagli ecovillaggi che richiedono appunto un coinvolgimento più intenso e una condivisione pressoché totale. La particolarità di questa tipologia di struttura è che lascia inalterate le vite quotidiane degli abitanti, le loro abitudini e le loro visioni, riuscendo al tempo stesso a promuovere uno stile di vita rispondente ai bisogni sociali, economici e ambientali che emergono sempre più nelle odierne società occidentali.
Il bisogno di comunità che sembra essere riemerso negli anni della modernità e dell’urbanizzazione può quindi trovare una certa dose di soddisfazione anche nel cohousing oltre che nelle forme di vita strettamente comunitarie quali sono gli ecovillaggi. Il desiderio e l’esigenza di una condivisione e di una socialità partecipata può realizzarsi in maniera moderata nei condomini solidali nei quali è possibile condurre autonomamente la propria vita quotidiana nella propria abitazione e allo stesso tempo condividere risorse e spazi comuni, con un bilancio positivo dei benefici dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
E’ quindi sul suo essere moderato -in quanto forma intermedia tra le soluzioni alternative- che dovrebbe essere puntato l’obiettivo: l’essenza stessa e quindi il suo punto di forza dovrebbe essere ricercato proprio nella capacità di sapersi inserire nel mezzo tra “radicale” e “abituale”, prendendo vantaggi da entrambe le forme e sapendole combinare insieme nelle giuste dosi.
Con questo non vogliamo ovviamente asserire che si tratti della formula perfetta di abitazione: il nostro sguardo rimane sempre relativo e pronto anche a individuarne i limiti, i punti deboli della struttura ed ogni eventuale svantaggio, ma consapevoli del fatto che, nonostante l’inevitabile presenza di fragilità, esso possa comunque essere interpretato come una forma moderata di vita alternativa.
Oggi la sensibilità a particolari temi sta iniziando a diventare sempre più popolare e sempre più percepita come fondamentale, con la diretta conseguenza che sono sempre più numerose le spinte a rivalutare e riconsiderare le condizioni materiali all’interno delle quali ci siamo ritrovati a vivere. Di pari passo alla presa di coscienza procedono le soluzioni che ciascuno si adopera a cercare e a mettere in pratica e, come dicevamo, queste si mostrano all’interno di uno spettro abbastanza ampio che va dai cambiamenti totali di vita a piccole e individuali azioni quotidiane. Nel mezzo troviamo invece quelle “sfumature” che richiedono sì un certo impegno per la loro riuscita, ma senza esagerare e che sono comunque in grado di rappresentare una valida alternativa di vita e una risposta alle esigenze materiali e non emerse negli ultimi tempi. Tra queste possiamo quindi collocare il cohousing, una “via di mezzo” del vivere altrimenti.
Un tentativo di definizione
Dopo questa breve introduzione interpretativa del cohousing cerchiamo di fornire una definizione più precisa, o se vogliamo più “tecnica”, del fenomeno.
Il cohousing è spesso descritto anche da termini quali “co-residenza”, “vicinato elettivo”, “comunità di vicinato”, “condominio solidale”: tutte definizioni che si adattano abbastanza bene al nostro oggetto tanto da poter essere considerate intercambiabili tra loro. Esso è prima di tutto un modo di vivere basato sulla coresidenza (e non sulla coabitazione) che si propone di mantenere l’indipendenza e l’autonomia di ciascun nucleo familiare (o di ciascun singolo individuo) sfruttando allo stesso tempo i vantaggi socio-economici della condivisione di spazi e servizi (per esempio laboratori per il fai da te, auto in comune, palestre, stanze per gli ospiti, orti, giardini, lavanderie-stirerie, nursery, ect). Si presenta quindi come una possibilità di risposta alla rinnovata esigenza di ricomposizione del tessuto sociale e comunitario propria delle società occidentali e come soluzione pratica ai problemi economici e organizzativi tipici della modernità.
Tecnicamente quindi il cohousing consiste in "un insediamento di 20-40 unità abitative, per famiglie e single, che si sono scelti tra loro e hanno deciso di vivere come una “comunità di vicinato”per poi dar vita -attraverso un processo di progettazione partecipata- alla realizzazione di un “villaggio” dove coesistono spazi privati (la propria abitazione) e spazi comuni (i servizi condivisi)" (Fonte: sito ufficiale del cohousing in Italia, www.cohousing.it).
Il punto di partenza è dunque quello di un gruppo di persone che hanno deciso di mettere in pratica un progetto residenziale che prevede la combinazione di abitazioni autonome e luoghi o spazi aperti collettivi, questi ultimi scelti di comune accordo in base alle esigenze e agli interessi dei partecipanti. Quello che ne viene fuori è quindi un centro abitativo socialmente condiviso e partecipato: i cohousers lo creano in prima persona e allo stesso modo lo animano sviluppando così una parziale forma di vita comunitaria a partire da esigenze tipicamente odierne come il rispetto ambientale, il rimedio alla solitudine dell’individuo e del cittadino, l’abbattimento dei costi quotidiani, la cooperazione, la collaborazione e la dimensione umana nelle sue esigenze di socialità. Come possiamo vedere "la progettazione partecipata riguarda sia il progetto edilizio vero e proprio -dove il design stesso facilita i contatti e le relazioni sociali –sia il progetto di comunità: cosa e come condividere, come gestire i servizi e gli spazi comuni" (stessa fonte).
La riflessione sull’oggetto da realizzare e sviluppare è quindi in comune e condivisa da tutti i partecipanti: questo rende il cohousing una struttura abitativa elastica, modellata sulle necessità del gruppo che la costruisce. Nonostante la presenza di uno schema di riferimento prefissato, le comunità di cohousing non possono essere per loro natura rigide e nemmeno imposte: l’organizzazione interna, le attività svolte, la tipologia e la dimensione della struttura e dei relativi spazi comuni sono decise e stabilite da chi si prepara a creare il nucleo residenziale ed andrà successivamente ad abitarlo. Senza questa base di partecipazione collegiale viene a cadere l’essenza stessa del cohousing e quindi la sua realizzazione.
Abbiamo già accennato a quelli che possono essere in linea generale le ragioni che spingono alla ricerca e quindi alla creazione di soluzioni di vita alternative o complementari agli stili caratteristici delle società occidentali. Le cause possono essere raggruppate in tre ordini di motivazioni: ecologiche (inquinamento e maltrattamento della natura che hanno portato alla ricerca di un rispetto per l’ambiente circostante e quotidiano attraverso uno stile di vita ecosostenibile), sociali (isolamento dell’individuo moderno causato dalle realtà cittadina ed urbane, dalla perdita dei valori e della dimensione sociale dell’uomo da ricreare attraverso rinnovate forme di condivisione e partecipazione collettiva), economiche (onerosità della vita quotidiana che richiede spese continue e sempre più insostenibili, da poter gestire in maniera meno gravosa grazie alla via della condivisione e della collaborazione). In maniera un po’ più semplicistica esse coincidono schematicamente con le motivazioni di fondo delle odierne comunità ed ecovillaggi, mettendo ancora una volta in evidenza la possibilità di una via più moderata e meno radicale ugualmente in grado di soddisfare le esigenze sopra citate.
Nel cohousing è quindi possibile soddisfare un bisogno ecologico rivalutando spazi aperti, utilizzando energie rinnovabili, condividendo servizi dispendiosi e inquinanti (per esempio condividendo le auto o elettrodomestici quali le lavatrici o i congelatori), realizzando giardini e orti in comune.
In secondo luogo la collocazione urbana o semiurbana rende il cohousing "una valida soluzione contro la crescente atomizzazione e solitudine delle grandi città della nostra epoca" (Sapio A. -a cura di-, Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2010, pp. 130-131) oltre che una soluzione meno radicale rispetto alla fuga da esse. Il fenomeno dell’urbanizzazione ha raggiunto oggi livelli veramente elevati e se da una parte le città sono in grado di attrarre per le numerose occasioni offerte, "allo stesso tempo spaventano per le difficoltà crescenti del vivere" (Ibidem). L’altro fattore riguarda invece la dimensione stessa del cittadino in quanto abitante: "in centri abitati così popolosi è sempre più difficile preservare le proprie radici mentre l’individualismo e lo sfaldamento della coesione sociale rendono, al contrario, l’individuo sempre più solo e con una bassa percezione di sicurezza sociale. In questo contesto di grave mutamento epocale, il problema principale è senza dubbio la perdita di coesione sociale e la disgregazione della vita comunitaria a cui il cohousing tenta proprio di dare una risposta" (Ibidem).
Infine la dimensione economica. Il costo della vita sempre più elevato a partire dalle esigenze primarie, l’aumento dei bisogni indotti dall’economia di mercato, la crisi economica e tutto ciò che ne scaturisce rendono la vita sempre più gravosa dal punto di vista finanziario. Il cohousing in questo senso si pone come sostegno alla crescente complessità della vita urbana, ammortizzando determinati costi e contribuendo a forme di risparmio grazie alle varie modalità di cooperazione e di condivisione alle quali dà luogo.
Riassumendo quindi possiamo vedere che le motivazioni del cohousing prendono vita da una particolare attenzione per l’ambiente circostante di vita quotidiana nel quale i cohousers si adoperano a ricercare ed instaurare dimensioni di relazionalità, solidarietà e di conseguenza di buon vicinato al fine anche di ridurre il più possibile la complessità della vita e i costi di gestione delle attività quotidiane.
Per una definizione ancora più precisa dell’oggetto riportiamo anche quelli che sono stati identificati come i tratti comuni dei condomini solidali ovvero le caratteristiche del cohousing (citando ancora il sito www.cohousing.it).
1. Progettazione partecipata. I futuri abitanti partecipano direttamente alla progettazione del villaggio in cui andranno ad abitare scegliendo i servizi da condividere e il modo di gestirli.
2. Vicinato elettivo. Le comunità di cohousing sono elettive: aggregano persone dalle esperienze differenti, che scelgono di formare un gruppo promotore e si consolidano con la formazione di una visione comune condivisa.
3. Comunità non ideologiche. Non ci sono principi ideologici, religiosi o sociali alla base del formarsi di comunità di coresidenza, così come non ci sono vincoli specifici all’uscita dalla stessa.
4. Gestione locale. Le comunità sono amministrate direttamente dagli abitanti che si occupano anche di organizzare i lavori di manutenzione e della gestione degli spazi comuni.
5. Struttura non gerarchica. Nelle comunità si definiscono responsabilità e ruoli di gestione degli spazi e delle risorse condivise (in genere in relazione agli interessi e alle competenze delle persone) ma nessuno esercita alcuna autorità sugli altri membri, le decisioni sono prese sulla base del consenso.
6. Sicurezza. Il cohousing offre la garanzia di un ambiente sicuro, con forme alte di socialità e collaborazione, particolarmente idoneo per la crescita dei bambini e per la sicurezza dei più anziani
7. Design e spazi per la socialità. Il design degli spazi facilita lo sviluppo dei rapporti di vicinato e incrementa il senso di appartenenza ad una comunità.
8. Servizi a valore aggiunto. La formula del cohousing, indipendentemente dalla tipologia abitativa, consente di accedere, attraverso la condivisione, a beni e servizi che per il singolo individuo hanno costi economici alti
9. Privacy. L’idea del cohousing permette di coniugare i benefici della condivisione di alcuni spazi e attività comuni, mantenendo l’individualità della propria abitazione e dei propri tempi di vita.
10. Benefici economici. La condivisione di beni e servizi consente di risparmiare sul costo della vita perché si riducono gli sprechi, il ricorso a servizi esterni, il costo dei beni acquistati collettivamente. La formula del cohousing (indipendentemente dalla tipologia abitativa) consente infatti di accedere, attraverso la condivisione, a beni e servizi più dispendiosi da ottenere singolarmente.
11. Autonomia economica. La comunità non è una fonte di reddito per i suoi membri. Occasionalmente può pagare uno dei suoi residenti per un lavoro specifico (solito limitato nel tempo), ma più generalmente il lavoro consiste nel contributo che ciascun membro offre per la condivisione delle responsabilità.
In conclusione possiamo quindi confermare che il punto di forza del cohousing sembra essere proprio la conservazione della sfera privata in tutte le sue componenti (lavoro, stile di vita, economia, ideologia ect.) costruita attorno ad un tessuto sociale di riferimento e rappresentato dalla comunità di vicinato della residenza elettiva, capace di restituire un senso di appartenenza e di condivisione, il tutto completato da vantaggi economici ed ambientali.
Alcuni accenni storici
Per rendere più completa questa serie di informazioni sul cohousing ci accingiamo a fornire anche qualche notizia storica sulle origini e la successiva evoluzione del fenomeno.
Il cohousing è un “prodotto” di origine scandinava: la prima esperienza riconducibile a tale forma di coresidenza si è avuta infatti in Danimarca negli anni ’70; da qui si è rapidamente diffusa anche negli altri paesi nordici per poi estendersi negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni ed infine nell’Europa meridionale.
Il cohousing nasce come risposta ad alcuni bisogni emersi dai caratteri propri delle moderne società nord-occidentali: l’affermazione incontrastata dell’individualismo, la caduta delle reti parentali tradizionali e la fragilità del welfare statale sono cose già visibili nei paesi scandinavi all’inizio degli anni ’70. Si inizia così ad avvertire l’esigenza di supportare determinati servizi e soprattutto di ricreare forme di socialità perdute negli stili di vita tipicamente moderni.
Non dobbiamo inoltre scordare il fermento che coinvolge i paesi più industrializzati nel periodo in questione: la rivoluzione giovanile made in USA degli anni Sessanta, il movimento studentesco del ’68 e il femminismo spingono verso forme di innovazione sociale che investono di conseguenza anche il modo di abitare sia nello spazio che nella dimensione relazionale con gli altri. Il XX secolo ha visto infatti fiorire una nuova fase in termini di convivenza sociale fatta di proposte e di realizzazioni di comuni e comunità, a partire da quelle hippy degli anni ’60 e ’70 per arrivare a forme più organizzate come gli odierni ecovillaggi.
Data la coincidenza storica possiamo quindi rintracciare l’origine del cohousing all’interno di tutte quelle innovazioni che hanno caratterizzato la metà del secolo sulla spinta dei movimenti giovanili -promotori di un rinnovamento dei valori e delle forme sociali di vita e di relazione- e considerarlo quindi "un tentativo originale di reintrodurre relazioni sociali tipiche delle società pre-industriali nella realtà post-industriale odierna, anonima e impersonale" (Sapio A. -a cura di-, Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2010, pp. 129).
Secondo McCamant e Durrett (promotori di questo movimento residenziale negli Stati Uniti) lo stile di vita del cohousing non è del tutto nuovo in quanto ripropone le caratteristiche proprie delle società preindustriali nelle quali i centri abitati basavano la loro struttura e organizzazione su legami interpersonali, permettendo così solide relazioni sociali in funzione dei contesti vissuti e degli spazi condivisi. La compartecipazione allo stesso tessuto sociale comporta una maggiore attenzione verso lo stesso che può portare a benefici collettivi nonché ad un aumento del senso di sicurezza e di appartenenza sociale.
Il cohousing quindi sembra proprio voler riportare alle luce tali caratteristiche, riproponendole in maniera innovativa e adattandole alle esigenze dei tempi e della modernità offrendo "un modello di coesistenza abitativa che consente di riportare questo senso di appartenenza a un luogo e a una comunità specifici, preservando, nel contempo, le esigenze di autonomia e indipendenza di ciascuno" (Ivi, p. 30).
Sulla base di quanto detto sopra possiamo quindi vedere come il cohousing trovi le sue origini all’interno di quel clima di rinnovamento proprio degli anni ’60 e ’70 che a sua volta richiama la necessità di un ritorno alle radici preindustriali della socialità e dei valori di riferimento. Tali origini tuttavia non devono portarci a pensare al cohousing come ad una forma tradizionale di comunità: esso tende a manifestare la sua diversità e il suo diverso sviluppo rispetto alle forme di vita collettive degli anni passati e di quelle odierne.
Ripercorriamo dunque le principali tappe della sua diffusione.
Come già accennato, il cohousing nasce in Danimarca con una prima esperienza di condominio solidale nel 1972. Dall’ideologia che ne sta alla base tale esperimento mostra fin da subito una certa continuità e connessione con il movimento studentesco del ’68 e con l’ondata di rinnovamento che esso comporta, anche in merito alle forme comunitarie di vita. Fin dall’inizio però il cohousing tende a differenziarsi con esse per l’importanza attribuita al mantenimento della privacy e degli spazi individuali proponendosi come forma intermedia tra le comuni vere e proprie e i condomini residenziali.
La prima struttura danese nasce nel 1972 a Skraplan dal progetto di Jan Godmand Hoyer, un architetto influenzato da un articolo dello psicologo Bodil Graae del 1967 nel quale lo specialista tende a mettere in discussione la famiglia nucleare alla luce della nuova cultura post moderna. Il primo esperimento di cohousing era concepito per 27 famiglie: oggi invece gran parte delle famiglie danesi vivono in strutture di cohousing molte delle quali con uno spiccato accento di tipo ambientalista (come la comunità residenziale a Munksoegaard, vicino Roskilde costituita da case di paglia e argilla).
Dalla Danimarca il progetto si espande con facilità nella vicina Svezia, un paese caratterizzato da una lunga tradizione di vita comunitaria. Con gli stessi elementi di continuità del precedente, il fenomeno prende piede senza problemi in questo paese scandinavo, con un buon riscontro sia da parte della popolazione che delle istituzioni. Una particolarità tipica della Svezia sono infatti gli investimenti da parte degli enti pubblici nella costruzione e nella promozione dei condomini residenziali: gran parte delle strutture di cohousing sono pubbliche e di proprietà delle amministrazioni locali (al contrario degli altri paesi nei quali sono invece private). Anche qui i primi esperimenti iniziano negli anni ’70 per poi svilupparsi notevolmente nel decennio successivo grazie al riconoscimento ufficiale e al sostegno da parte degli enti pubblici.
La più grande comunità di cohousing svedese è Stoplyckan, costituita da oltre 400 persone, 184 appartamenti e 13 condomini.
Altro paese protagonista di questa prima ondata di diffusione del cohousing è l’Olanda. Il movimento culturale dei condomini solidali trova la sua origine sul finire degli anni ’60 nelle città universitarie olandesi (Amsterdam, Utrech, Tilburg), centri propulsori di proposte innovative da parte dei giovani. Il fulcro di questa volontà di cambiamento viene individuato nell’ideazione di modelli sociali incentrati sulla persona, sui valori di cooperazione e sull’uguaglianza tra i sessi (punto sul quale ha influito molto il movimento femminista).
Negli anni ‘70 queste proposte trovano una concretizzazione con la costruzione dei primi cohousing: anche qui si presentano come strutture finalizzate a sostenere il contatto tra persone creando un tessuto sociale di vicinato molto più solido e integrato rispetto ai tradizionali condomini. Caratteristica olandese è l’organizzazione in circoli (clusters) ovvero ciascun nucleo residenziale possiede i propri spazi comuni (sala, cucina, lavanderia) mentre l’intera comunità residenziale possiede un edificio comune per gli incontri collettivi dei membri.
Ad una prima fase di nascita e sviluppo del cohousing in nord Europa a partire dagli anni ’70, si assisterà, circa un ventennio dopo, ad una sua diffusione oltre oceano.
Sul finire degli anni ’80 due architetti statunitensi Kathryn McCamant e Charles Durrett decidono di visitare e di intraprendere uno studio sulle strutture residenziali di vicinato danesi. Al loro rientro negli Stati Uniti pubblicano il libro Cohousing: A contemporary approach to housing ourselves (Ten Speed Press, Berkeley, CA, USA, 1993) che ottiene un enorme successo tanto da diventare la guida del movimento culturale del cohousing statunitense. Il cohousing trova così il suo sviluppo negli USA, sempre pronti ad accogliere forme sperimentali e alternative di vivere, con un riscontro positivo da parte della popolazione.
Dallo sviluppo americano del cohousing si è poi passati alla sua diffusione negli altri paesi anglosassoni: prima in Australia (dove erano già presenti forme di ecovillaggi) e in Nuova Zelanda e poi nel Regno Unito. Infine la sua diffusione a livello globale ha toccato anche il Giappone.
All’inizio del III millennio il fenomeno cohousing ha iniziato a scendere anche verso l’Europa meridionale. Anche se in ritardo esso ha comunque mostrato fin da subito una certa diffusione e un vivace dibattito sui temi relativi alle nuove esigenze abitative. Il cohousing ha cominciato quindi a mostrare la sua presenza in Spagna e in Francia, mostrandosi come possibile modello abitativo per le giovani famiglie. In Italia, a partire dal 2006 (o forse anche già da prima), si è registrata un’interessante partecipazione su potenziali progetti di cohousing sul suolo nazionale e un vivace dibattito sulla loro realizzazione che ha portato alla nascita dei primi esperimenti.
Come possiamo vedere, il fenomeno è attualmente limitato –sia per nascita che per sviluppo successivo- all’interno delle moderne società occidentali. Dall’origine scandinava si è divulgato a livello globale, ma rimanendo circoscritto a specifici contesti occidentali di cultura post industriale. Questo però non deve portare a credere ad un arresto della sua propagazione o evoluzione: le prospettive future hanno tutte le credenziali per portare a credere in una diffusione veramente globale del fenomeno (con i tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso), anche se questo al momento può essere sostenuto solo sotto forma di potenza. Il destino del cohousing a livello globale resta quindi per adesso un argomento da riservare al futuro.
Brevi accenni sull’esperienza italiana
Come già accennato, in Italia il movimento del cohousing sta iniziando a muoversi con la messa a punto di alcuni progetti e con un vivace dibattito che quantomeno riesce a mantenere il tema sulla scena. Non possiamo comunque parlare di una vera e propria diffusione del fenomeno o di una sua conoscenza di ampio raggio: la cosa è ancora limitata agli addetti ai lavori e a tutti coloro che si mostrano interessati a temi affini, comprese le forme alternative di vita. Complice di questo è il ritardo con il quale il fenomeno ha raggiunto il nostro Paese e l’attaccamento alle tradizioni e alle forme di vita tradizionali e ordinarie ancora abbastanza radicate, seppur con tutti gli stravolgimenti del nucleo familiare tipici della modernità.
L’Italia ha conosciuto infatti pochi esperimenti comunitari all’epoca dei movimenti giovanili di rivolta: se per le nazioni nord-europee e gli Stati Uniti gli anni ’60 e ’70 hanno rappresentato un terreno di partenza per l’elaborazione e la sperimentazione di nuove forme alternative di vita tuttora vitali e funzionanti, per l’Italia questo periodo si è risolto con poche azioni pratiche e quasi tutte fallimentari. Tuttavia l’odierno movimento comunitario degli ecovillaggi sta prendendo sempre più piede, con una solida rete nazionale di rappresentanza e l’insediamento di queste forme di vita in svariate regioni italiane, diverse anche da quelle di storica tradizione comunitaria (Toscana, Piemonte, Veneto, Lombardia). Data la crescente diffusione del movimento comunitario e delle forme alternative di vita, possiamo aspettarci quindi anche la crescita di quello della coresidenza.
L’Europa meridionale ha visto arrivare la forma abitativa del cohousing solo nei primi anni del III millennio, in ritardo anche rispetto alle forme di vita comunitarie dei villaggi ecologici. Di conseguenza anche in Italia siamo all’inizio: risulta perciò un po’ difficile poter parlare con precisione di incidenza del fenomeno, dei suoi sviluppi, delle possibili forme di realizzazione e dei loro eventuali esiti.
Secondo Lietaert è all’incirca dal 2006 che è possibile registrare la presenza di una discussione mediatica legata alla diffusione del cohousing e alla presentazione di alcuni progetti di realizzazione per i quali sembrano prevalere almeno due modelli operativi, uno di stampo statunitense e uno danese. Il primo prevede la presenza di agenzie che agiscono come mediatori nella realizzazione del progetto: un’equipe di esperti (architetti, immobiliaristi, psicologi) viene messa a disposizione dei potenziali cohousers per realizzare il progetto di coresidenza che più si adatta alle esigenze dei partecipanti, intraprendendo insieme ad essi un vero e proprio percorso di formazione che ha come obiettivo la realizzazione finale del cohousing. Un esempio tra tutti è l’attività svolta a Milano dalla Innosense Cohousing Ventures, una compagnia di promozione e supporto nata dall’incontro di due realtà cittadine quali l’agenzia per l’innovazione sociale Innosense Partnership e il Dipartimento INDACO del Politecnico di Milano.
Il secondo modello è invece di ispirazione danese e prevede, al contrario, una gestione autonoma del processo di ideazione e realizzazione del cohousing, senza alcuna mediazione da parte di enti esterni. Sono quindi i futuri cohousers che si muovono in maniera indipendente alla ricerca delle abitazioni, occupandosi anche del contatto con gli enti locali, della gestione giuridica e burocratica, dell’organizzazione interna con un notevole risparmio sui costi di realizzazione, ma con lo svantaggio di un inevitabile allungamento dei tempi.
Le regioni italiane che hanno mostrano un primo interesse verso il fenomeno del cohousing sono quelle del centro-nord: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Toscana, confermando così la tendenza nazionale nei confronti dell’innovazione ovvero la sua iniziale diffusione a partire dal nord del Paese e dalle sue zone urbane e industriali. I primi progetti che possiamo iniziare ad elencare –siano essi già concretizzati o in fase di realizzazione- hanno infatti come protagonista principale la città di Milano e la sua periferia urbana.
Tra i centri già realizzati troviamo:
-Cohousing TerraCielo a Rodano, nei pressi di Milano. Il centro residenziale prevede 60 appartamenti (da 50 a 170 mq) e 400 mq tra spazi comuni coperti, orti, giardini e frutteti; una realizzazione praticamente totale in termini di ecosostenibilità con l’utilizzo della geotermia e del fotovoltaico e la possibilità di utilizzo di una rete di GAS (gruppi di acquisto solidale) per la spesa alimentare (per maggiori informazioni rimandiamo al sito www.terracielo.biz);
-Urban Village Bovisa, il primo cohousing italiano realizzato in un ex opificio e attivo dal 2009. Formato da 32 famiglie che vivono in loft e mansarde con garage e piccoli giardini privati e 140 mq di spazi comuni (living condiviso, lavanderia e stireria, hobby room, deposito GAS, piscina, solarium).
Altri in fase di realizzazione:
-Greenhouse, un complesso di 36 appartamenti nel quartiere Lambrate di Milano che dovrebbe vedere il completamento proprio a fine 2012. Il progetto prevede la realizzazione di abitazioni autonome e dei consueti spazi comuni, la presenza di una serra verticale per la produzione di frutta e ortaggi predisposta all’utilizzo collettivo delle famiglie che vi andranno a vivere e l’utilizzo totale delle energie rinnovabili;
-Cohttage, un progetto che prevede di nascere alla fine del 2013 dal recupero di una cascina nel quartiere di Trenno a Milano. Questo cohousing prevede 20 unità abitative di svariate tipologie e 200 mq di spazi comuni;
-Residance e Cosycoh, progetti pilota (i primi in Europa) di cohousing in affitto a Milano. L’intento in questo caso è quello di offrire delle possibilità abitative a prezzi agevolati (si parla di cifre che ruotano attorno ai 10 euro al mq), insieme alla possibilità di socializzare e condividere le esperienze di vita quotidiana. Anche in questo caso è prevista la presenza di appartamenti privati e di una sala di circa 65 mq in comune oltre ai vari servizi condivisi. Questo tipo di progetto si rivolge soprattutto ai giovani (studenti e non), molto spesso alle prese con problemi abitativi nelle grandi città causati da spese di affitto e di gestione troppo onerose;
-Cohlonia, a Calambrone in provincia di Pisa. Questo progetto nasce dalla ristrutturazione delle vecchia colonia Regina del Mare già ex Villa Rosa Maltoni Mussolini a 100 metri dal mare della costa pisana. Il progetto prevede presenza di 60 nuclei abitativi, 20.000 mq di parco comune e 500 mq di spazi condivisi predisposti a diventare il centro della vita comunitaria della residenza;
-Aquarius, un progetto di cohousing per senior (cinquantenni e oltre) da conseguire con il recupero di Villa Cridis a Cossato (Biella) su una superficie complessiva di 3.000 mq all’interno di un parco di 15.000 mq. E’ prevista la realizzazione di 40 appartamenti indipendenti (da 40 a 90 mq) e almeno 200 mq di spazi condivisi (salotto, lavanderia, area salute, ambulatorio medico, giardino).
Sempre in Piemonte, vediamo che anche la città di Torino si è resa partecipe alla diffusione del cohousing con l’Associazione Coabitare (www.coabitare.org) la quale si occupa di promuovere e sostenere le varie iniziative di coresidenza e i progetti all’interno del centro urbano, tra cui segnaliamo:
-Numero Zero, il primo progetto dell’associazione situato a Porta Palazzo, nel centro di Torino (per maggiori informazioni rimandiamo direttamente al sito di Numero Zero, www.cohousingnumerozero.org).
-Via Perugia, un progetto che prevede la realizzazione di una struttura di cohousing all’interno di un più vasto piano di riqualificazione di un opificio dismesso ad opera di un’importante impresa torinese. L’idea è quella di dar vita ad una residenza suddivisa in singoli appartamenti attorno ad un parco centrale di circa 5.000 mq.
A livello generale il movimento del cohousing italiano fa capo al sito internet www.cohousing.it che si propone di essere tra le altre cose (leggiamo direttamente dal sito):
-il punto di raccolta di informazioni e di esperienze relative al cohousing;
-uno strumento di aggregazione che possa facilitare la creazione di gruppi di persone interessati alla coresidenza;
-una vetrina delle proposte e delle opportunità sul territorio per ciò che riguarda la creazione dei villaggi in coresidenza;
-il punto di incontro e di scambio all’interno della rete di comunità presenti e future;
-il riferimento per la creazione di reti professionali (architetti, urbanisti, immobiliaristi, promotori sociali) che possano contribuire con le loro competenze alla creazione dei nuovi insediamenti.
Il proposito di cohousing.it è quindi quello di creare un vero e proprio network informativo e relazionale attorno al nuovo fenomeno del cohousing italiano e la sua community un punto di riferimento per tutti coloro che sono interessati -sia materialmente in quanto cohousers o anche solo idealmente in quanto sostenitori esterni- al movimento con la possibilità così di usufruire di tutti i vantaggi informativi e di tutte le attività di supporto messi a disposizione.
Per ulteriori informazioni non ci resta quindi che rimandarvi direttamente al sito!
Cristina Salvadori
Bibliografia
Bramanti D., Le comunità di famiglie. Cohousing e nuove forme di vita familiare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2009.
Sapio A. (a cura di), Famiglie, reti familiari e cohousing. Verso nuovi stili del vivere, del convivere e dell’abitare, FrancoAngeli Editore, Milano, 2010