Si è spento domenica 7 giugno, nella sua casa di Roma, alla presenza dei figli e degli amici più intimi, Angelo Quattrocchi, editore della Malatempora, lasciando un vuoto difficilmente colmabile nell’editoria radicale ed alternativa.
Era l’inizio del nuovo millennio, nella libreria de Il Manifesto, a Roma. Veniva presentata una nuova rivista — Libertaria — erede della Malatestiana Volontà.
Uno degli interventi in sala è vitale, un po’ sopra le righe, con qualche lieve picco di delirio. È lo scrittore Angelo Quattrocchi. Avevo letto un suo articolo, piuttosto veemente, su uno dei primissimi numeri della rivista. A fine presentazione distribuisce ai convenuti alcuni volantini fotocopiati in cui vengono presentati pochi titoli di una nuova casa editrice: Malatempora . Sono contento ci sia un nuovo editore di area anarchica (ricordo la frase di un mio amico anarchico: se c’è una cosa che siamo bravi a fare sono le case editrici), pur se evidentemente meno professionale dei milanesi dell’Eleuthera.
Mesi dopo, un amico mi invita ad un cocktail-party in casa Quattrocchi, a Trastevere. Era un mercoledì ed il party ricorreva, con cadenza settimanale, senza perdere un colpo. Ogni mercoledì si beveva, si mangiava qualcosa, si parlava e, soprattutto, si sproloquiava in casa Quattrocchi, poco distante, coincidenza forse non del tutto casuale, dal carcere romano di Regina Coeli.
Angelo era alla costante, disperata ricerca di venditori di strada dei suoi libri. Si definiva un beat, probabilmente l’ultimo verace in una Trastevere prerogativa crescente di VIP di vario ordine e grado. Trovo avesse anche una concezione drammaticamente beat dell’editoria, evidentemente legata a logiche, stradaiole, degli anni ’70.
A quasi dieci anni di distanza dal momento in cui lo conobbi nella libreria de Il Manifesto, direi che parte della sua produzione editoriale possa essere benevolmente definita “editoria fuori”, ragion per cui la Malatempora non ha mai avuto molto spazio nelle librerie. Aveva ed ha, tuttavia, una sua efficacia, salvo forse alcuni eccessi, nel fare breccia nella cortina del conformismo e dell’ipocrisia.
La Malatempora ha inoltre avuto il grande merito di essere un punto di riferimento per autori emergenti, penalizzati nell’accesso agli ambienti blindati dell’ “editoria dentro”. Con Angelo non era difficile pubblicare. Era sufficiente avere qualche buona idea e proporgliela nel corso di uno dei suoi cocktail party, magari passandogli una canna, in un contesto che ha ispirato l’aggettivo malatemporoso tra i più intimi frequentatori.
Io nel 2002 ho una buona idea: scrivere un testo su un ambiente “fuori” visto “dal di dentro”, quello dei militanti vegetariani. Angelo mi sa dare consigli puntuali ed efficaci. Conosce Nico Valerio, autore Mondadori, grande esperto di alimentazione naturale e vegetariana, frequentatore, per un certo periodo, del suo cocktail party. Mi dà il suo numero di telefono dicendomi: «chiamalo e fissa un appuntamento ma non andare impreparato, bisogna fare i compiti a casa quando si va dal grande esperto!».
Vegetariani come, dove, perché è presto pubblicato. Ho avuto la possibilità di scrivere quello che volevo, di raccontare anche una mia esperienza di digiuno con un eremita che viveva in una grotta, poco distante da Roma e mi faceva fare un enteroclisma (un ricco clistere) al giorno, sostenendo rappresentasse il vero battesimo dell’acqua.
Prima di pubblicare il testo, Angelo mi affida allo scrittore Massimo Mongai, per un editing. Massimo, ricordo, era piuttosto perplesso riguardo l’opportunità di identificare i miei enteroclismi con uno dei pilastri sacramentali del cristianesimo. «Vedi», mi diceva, «bisognerebbe specificare che si tratta di una concezione radicalmente apocrifa, altrimenti rischiamo un autogoal». Angelo non era minimamente preoccupato e, dopo circa un anno dalla pubblicazione, presentò sfacciatamente Vegetariani come un best-seller sulla quarta di copertina del mio secondo testo Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, pubblicato ancora con lui. Quest’ultimo ebbe un successo insperato e non posso dimenticare gli ultimi ritocchi che facemmo insieme, a casa sua. Stavamo preparando il PDF definitivo ed il sociologo tedesco Tönnies era orfano di umlaut (i due puntini sulla “o”). «Angelo», gli dico preoccupato, «manca l’umlaut, dovremmo aggiungerlo!». Risposta sua, splendidamente stentorea: «me ne fotto!».
Era più preoccupato di rivedere il brano su Calcata, borgo medioevale tra Roma e Viterbo evacuato negli anni ’60 e ripopolato da artisti, intellettuali, hippies, “originali”. Dita che scorrono sulla tastiera del computer, scrive «Calcata sorge su uno sperone di tufo, rotondo…». Lo interrompo: «Angelo, dove lo hai visto lo sperone rotondo?». E lui, mentre continua a scrivere: «mi sono preso un acido, una volta, a Calcata». «Ah», rispondo, «ecco perché lo vedevi rotondo!». Lo sostituisco alla tastiera e lo sperone su cui sorge Calcata perde l’aggettivo inappropriato.
Aneddoti ce ne sarebbero molti, come quella volta, nell’estate del 2002, che pretese che io ed un giovane fricchettone (Easy Rider) seguissimo diverse manifestazioni della CGIL — con tappe in tante città d’Italia, al centro, al nord ed al sud — con il banchetto dei libri Malatempora. Con Easy Rider ci fermammo a Civitavecchia (la prima tappa, partendo da Roma) ed io mi rifiutai di proseguire. I responsabili della CGIL, tra l’altro, non ci volevano tra i piedi. Lo dissi ad Angelo e lui: «vengo io, vedrai che li convinco, li minaccio di spifferare tutto a La Repubblica». Per fortuna non riuscì nemmeno lontanamente a persaduerli e, per farsi perdonare per il disagio causato a me e Easy Rider, ci portò a mangiare il pesce a Capocotta, la spiaggia gay di Ostia. Dopo cena giocammo a biliardino. Io ed Angelo contro Easy Rider che però continuava a vincere, anche giocando con una mano sola. Angelo si arrabbiava e se la prendeva con me ed Easy Rider ci minacciava: «se vinco ancora io, per penitenza dovete rimettervi dietro alla carovana della CGIL, voi due questa volta». Ed io non potevo che ribattere: «no, dietro la carovana della CGIL no!».
Un’altra volta partimmo con Bruno — il mio amico che per primo mi portò a casa Quattrocchi — ed Angelo per portare alcuni libri a Viterbo. Io avevo appena smesso di fare il pon-pier ovvero il pony express e PR della Malatempora. Non ne potevo più, farsi pagare da Angelo era una sorta di mission impossibile. Pensavo di essere finalmente un uomo libero quando, puntuale, arriva la sua telefonata: «ti chiedo un ultimo servizio di modo che tu possa uscire da questa esperienza di collaborazione brillantemente; dobbiamo andare a Viterbo, a portare in magazzino 300 copie di Pissing». Era la sua ultima creatura, un testo scritto da un transgender sulla pratica erotica in titolo. Angelo non aveva la macchina, non aveva cellulare, dunque faceva ogni sorta di manfrina per coinvolgere altri nelle sue faccende. Io, a mia volta, coinvolgo Bruno e partiamo con la sua vecchia Panda e probabilmente non abbiamo un prodotto integralmente legale in macchina, malgrado la copertina riporti, innocentemente, l’immagine di un quadro di Gustav Klimt. Fu un viaggio spassosissimo. Angelo ci raccontò di una volta che viveva in America ed aveva, come sempre, una “casa aperta”. Parte per un periodo senza preoccuparsi di chiuderla, fiducioso che i frequentatori la gestiscano al meglio. Al suo rientro si trova casa occupata da integralisti islamici senegalesi e deve darsi molto da fare, con le sue solite manfrine, per rientrare in possesso del suo alloggio. Ci fu poi il periodo che era spiato dal KGB e si ritrovava sempre in casa, infiltrate, donne russe bellissime. Telegrafico il suo commento: «che scopate!».
Arriviamo a Viterbo, tra un aneddoto e l’altro ed il magazziniere, con Pissing tra le mani, dice ad Angelo: «tu fai un libro di questo tipo, con questa copertina innocente. Mi immagino, in libreria, un’anziana signora che, attratta dalla copertina, lo inizia a sfogliare e trova fotografie oscene, travestiti che si pisciano in faccia. Tu sei proprio matto!». Ed io e Bruno, naturalmente, a ridere a crepapelle.
Passano gli anni. Mi trasferisco in India ed Angelo vende la sua casa a Trastevere e si trasferisce nel più modesto ma vitale ed underground quartiere del Pigneto, a Roma.
Lo rivedo l’ultima volta l’anno scorso, dopo un’allarmante telefonata. Ricordo che quando lui rispondeva al telefono, io esordivo regolarmente con un entusiasta ed affettuoso “Angelotto!”. E’ contento di risentirmi e mi vuole rivedere, dopo una mia permanenza in Asia di oltre un anno. Quasi come pro-forma gli chiedo: «come stai?». «Sono un po’ acciaccato!», mi risponde. «Che è successo?», gli chiedo spensierato (cosa poteva essere mai successo ad una persona che si limita a dire: sono un po’ acciaccato). Lui: «quando vieni ne parliamo!». Io a quel punto inizio a preoccuparmi, insisto per sapere qualcosa di più. Lui sospira: «ho un cancro alla prostata ma quello sarebbe il meno, mi si è esteso alle ossa, sono imbottito di antidolorifici che non fanno nemmeno il loro mestiere. Sono acciaccato, davvero!». Inutile dire che la notizia mi sconvolge. Giunto a Roma corro a trovarlo. Cammina con il bastone. Passiamo una bellissima serata a chiacchierare. Parliamo dell’India, della Thailandia, lui mi racconta della sua esperienza di gioventù in Vietnam, dove vorrebbe ritornare, dove, durante la guerra, aveva aiutato i disertori a fuggire oltrefrontiera, sotto il naso della CIA. Nel mio soggiorno romano devo anche seguire la pratica del visto all’ambasciata indiana. Una pratica complessa per un visto lungo. Lui insiste per farmi una lettera di presentazione su carta intestata, dichiarando che devo stare in India, da studioso, per scrivere un libro che lui stesso mi aveva commissionato e che confidava nella storica disponibilità del gigante asiatico ad accogliere intellettuali europei. Aveva un’anima generosa e, credo, mi voleva molto bene. Una volta, davanti ad un piatto di trippa, qualche tempo prima che si ammalasse, accennò a quelle che considerava le “nostre affinità elettive”. Anche io gli volevo bene anche se sentivo di non volergli assomigliare per troppe cose e non amavo essere troppo condizionato dalla sua figura. Una figura quasi di maestro, gli dissi l’ultima volta a Roma, sul fronte della scrittura. A luglio 2008 torno in India ma, con Angelo, restiamo in contatto via mail. Ci penso spesso, sono preoccupato. Un giorno trovo queste parole su una sua e-mail: «ti scrivo da sedia a rotelle, sono all’altezza esatta del computer, non sto più in piedi!». Poco tempo dopo lo chiamo da una gradinata sul Gange. E’ in clinica, stanno tentando il tutto per tutto per rimetterlo sulle sue gambe ma sarà difficile, difficilissimo. Parliamo di un suo libro che sto leggendo, Wounded Knee, su di una importante rivolta degli indiani d’America nella prima metà degli anni settanta. Non vuole parlare della malattia, dice che i miei libri sono sempre amati, che continuano ad ordinarli in casa editrice. Angelo non si alzerà più dalla sedia a rotelle ma, in qualche mail successiva mi scrive: «sto bene…dalla cintola in su». Torno a Roma ad aprile di quest’anno, sono pieno di cose da fare. Devo anche andare da Angelo, ci devo anche andare con diversi amici, dovrei andare alla presentazione del testo di un suo autore ma alla fine non se ne fa nulla. Non so, in realtà, che Angelo non sta per niente bene dalla cintola in su, che il cancro lo sta divorando, che non sempre è lucido, che a volte ha la febbre, a volte è esausto e non riesce quasi più a lavorare. Sabato 6 giugno sono a casa. Ho un impulso irrefrenabile; è giunto davvero il momento di rivedere Angelo. Lo chiamo a casa (che è anche la sede della sua casa editrice), mi risponde una voce di ragazza. E’ la figlia, non capisce bene chi sono anche se mi conosce, mi passa Stefano, il factotum che mi dice: «ti avrei chiamato a minuti, Angelo è in coma, è questione di ore, non credo di giorni, è in uno stato vegetativo, oramai». Restiamo d’accordo, con Stefano, che mi contatterà ad avvenuto decesso. Incasinati fino alla fine, alla Malatempora, non riceverò la sua chiamata. Scopro del decesso leggendo una e-mail mentre sono, per sbaglio, su un pullmann per Saxa Rubra, alla periferia di Roma. È lunedì ed Angelo è mancato il giorno prima. Telefono a Stefano e ci diamo appuntamento, di lì ad un’ora, al cimitero romano di Prima Porta, poco distante, per mia fortuna, da Saxa Rubra. Ci troviamo davanti al crematorio, Angelo è già andato e siamo un piccolo drappello di amici e due dei suoi tre figli. Due parole, qualche battuta, la prospettiva di una festa di commemorazione fra un mese, un passaggio in macchina per me che ho la mia dal meccanico. Il corpo di Angelo, intanto, è diventato cenere. La macchina di Stefano esce dal cimitero, siamo in cinque, giovani e giovanissimi, amanti della scrittura, aspiranti scrittori, scrittori fatti ma che ancora debbono “camminare”, “figliocci” suoi, di Angelotto, del nostro caro Angelo che ha anche ispirato un personaggio, senza nome, di un mio romanzo: “un vecchio amico” che, proprio come lui, non potevo che definire “strampalato e geniale”.