Sono bene felice, in apertura di settimana, di ospitare un contributo dell'amico
Ivan Osokin su una curiosa esperienza comunitaria californiana.
Ivan:
Se pensate che nella vita di un aristocratico europeo dei secoli scorsi vi fosse qualcosa di spirituale; che l’eleganza dei modi, la compostezza della posa, l’urbanità nel parlare predispongano l’uomo a gioie ultraterrene; che la contemplazione e l’ascolto dell’arte classica inducano stati alterati di coscienza: allora la comunità “Fellowship of Friends”, ad Apollo in California, fa per voi. Qui vivono circa 500 persone, provenienti da ogni parte del mondo, che seguono gli insegnamenti di Robert Earl Burton, un americano dell’Arkansas che si rifà (con qualche variante) alla “Quarta Via”, ovvero a quel complesso di teorie e pratiche spirituali portati in Occidente da George Gurdjieff all’inizio del ventesimo secolo, e divulgate dal suo discepolo russo Peter Ouspensky. Il cuore della “Quarta Via”, così come Burton l’ha interpretata, è nell’espressione di Gurdjieff: “Ricorda te stesso sempre e ovunque”. Dunque gli abitanti di Apollo (ma vi sono altri mille studenti di Burton sparsi per il mondo) cercano, in tutte le loro attività, di “dividere l’attenzione”: ovvero ricordare se stessi e allo stesso tempo attendere alle occupazioni del momento.
Secondo il maestro fondatore, ciò diventa più facile usando intenzionalità, cura e grazia in tutto ciò che si fa, ovvero restando “presenti” (un’espressione chiave ad Apollo). Niente, quindi, meditazioni a occhi chiusi, danze sacre, riti religiosi di qualsiasi tipo: ad Apollo “religione” vuol dire fare le cose di tutti i giorni, ma “con l’attenzione divisa”. Anzi: il proprio lavoro interiore deve essere sempre invisibile, altrimenti può sconfinare nella vanità.
Le uniche danze che si tengono ad Apollo arrivano dalla Russia, nientepodimeno che dal Teatro Bolshoi, uno dei più rinomati al mondo in fatto di balletto. Grazie ai suoi contatti, Robert Burton riesce tutti gli anni a far venire qualcuno dei ballerini del Bolshoi ad Apollo, e così i suoi studenti possono “produrre presenza” contemplando raffinate esibizioni in cui il massimo sforzo si coniuga alla massima leggerezza. E se proprio si vogliono trovare cerimonie religiose ad Apollo (a parte i balletti)… Beh, queste si chiamano: colazione, pranzo, tè e cena “con Robert”. In sale che paiono ispirate alla reggia di Versailles (ma la casa dicono si chiami “Galleria” in omaggio alla Galleria Borghese di Roma), si degustano prelibatezze e vini squisiti, quasi sempre senza riuscire a finirli, perché inflessibili maggiordomi in smoking, a un segno del maestro, portano via i piatti quando sei ancora a metà. Né le stranezze terminano qui: il primo boccone si lascia da parte, quando si mastica non bisogna fare altro, vanno usate sempre due posate impugnate “all’inglese”, il tovagliolo si ripiega con cura… Tutto per tenere sotto controllo “il sé inferiore”, direbbe Burton, che al momento di mangiare diventa particolarmente attivo.
Va da sé che un posto simile ha il suo prezzo. Se la bellezza e le più fini tra le impressioni costituiscono un ponte verso il divino, il pedaggio è elevato: nella Galleria ci sono arazzi Gobelins, mensole barocche napoletane, orologi Luigi XV, tele del Seicento italiano e molte altre cose non proprio economiche (chi vive e lavora ad Apollo, però, può godere di vari benefici economici, oltre che di un piccolo salario). Ma “la quarta via”, ti direbbe uno studente, “è per il buon padre di famiglia”: ovvero una persona con la testa sulle spalle, non “vagabonda”, ma capace tutte le sere di portare a casa un bel gruzzolo.
C’è chi ci crede, e c’è chi invece va su tutte le furie e accusa Burton e i suoi studenti di innumerevoli nefandezze, le stesse che si dicono, da che mondo è mondo, contro tutte le minoranze religiose un po’ strane: lavaggio del cervello, sfruttamento, ciarlataneria, etc. Ma Burton e i suoi non rispondono a nessuna critica, anzi fanno spallucce. Perché? Perché “il risveglio ha bisogno della forza contraria” e l’atteggiamento giusto di fronte a quest’ultima non è rispondere, bensì “trasformare”. In uno stato di presenza senza parole, of course.