TRANSUMANZA

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martedì 25 maggio 2010

Le comunità intenzionali e le secche dell'Occidente.

Di seguito la relazione che ho proposto a Villa Sorra (Castelfranco Emilia, in provincia di Modena), in occasione del Festival La Città Olistica, organizzato dal CONACREIS:

Citando dal mio precedente testo Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo «vivere in un ecovillaggio o in una comunità intenzionale non è, a mio parere, esente da rischi.
Del resto, qualunque persona sufficientemente sensata converrà che ogni scelta esistenziale non può non esserlo. Qualcuno ha il coraggio di affermare non sia rischioso consegnare la propria vita ad una banca, ad una qualunque azienda o avventurarsi in una relazione amorosa con una persona sulla cui affidabilità nessuno può garantire fino in fondo? E via discorrendo…».
Uno dei pericoli che mi è sembrato di riscontrare presso alcune persone che vivano in una comunità intenzionale o in un ecovillaggio può essere, a mio modo di vedere, la tendenza ad identificarla/o con uno spazio di verità ed autenticità, sviluppando una certa indifferenza nei confronti del resto del mondo, che marcia lungo altre coordinate.
«Di qui la possibilità che emerga un’inclinazione a viversi come una “sezione” in qualche modo indipendente dal mondo ordinario» che
credo meriti una buona dose di “vigilanza”.
Vigilanza che già si esprime in alcune realtà comunitarie (può essere emblematico il caso di Damanhur) attraverso una presenza particolarmente attiva anche fuori del proprio ambito comunitario (merita segnalare, al riguardo, che circa 250 cittadini damanhuriani sono attivi nel volontariato, nella Protezione Civile, nell’Anti Incendio Boschivo, nella Croce Rossa, come Donatori di sangue, Vigili del fuoco ed offrendo assistenza agli anziani).
Ritengo altresì che il CONACREIS, che colgo l’occasione per ringraziare, stia, in questi anni, facendo un ottimo lavoro, promuovendo un incontro “a maglie larghe” all’insegna del laicismo (valore di cui apprezzo ogni giorno di più la pregnanza e la necessità) e del rispetto delle reciproche diversità delle realtà associative e comunitarie che coinvolge ed incoraggiando un’apertura dialogica nei confronti della società tutta.
Credo dunque sia questo il contesto giusto per avventurarsi in qualche prudente riflessione su quanto sta succedendo, oggi, nel mondo, dimenticando appena per un attimo la dimensione avanguardista delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi.
Da qualche anno sto avendo la fortuna di vivere a cavallo di due continenti: l’Europa e l’Asia vedendo così ampliati i miei parametri di riferimento.
È cosa oramai nota che il baricentro economico e, di conseguenza, politico del mondo si stia spostando in Asia. Ne abbiamo avuto una piccola/grande conferma sul calare del 2009, in occasione del summit sul clima di Copenaghen la cui linea, soprattutto in merito a quanto è stato scritto nel documento finale, è stata data dai cosiddetti paesi emergenti, soprattutto da Cina ed India.
Il messaggio è stato chiaro, in diretta continuità con quanto emerso nel corso dell’incontro del G8 all’Aquila, all’inizio della scorsa estate: l’Occidente ha conosciuto la sua stagione di sviluppo, evidentemente poco sostenibile. Ora ne sta iniziando a temere seriamente gli effetti e vorrebbe che la crescita dei paesi asiatici venga in qualche modo condizionata da preoccupazioni di compatibilità ambientale. A fronte di queste, l’Asia “risponde picche”, rivendicando sia giunto il proprio turno nella corsa al benessere. Il summit di Copenaghen non ha dunque posto alcun vincolo serio di sostenibilità ambientale allo sviluppo, Cina ed India ed altri paesi emergenti hanno piuttosto ottenuto la prospettiva di fondi relativamente cospicui da investire nelle energie rinnovabili (a gennaio 2010 infatti, in India, il premier Manmohan Singh annunciava trionfalmente la creazione di solar valleys, l’utilizzo, cioè, di intere vallate per l’installazione di pannelli solari).
A fronte di quanto appena detto e riportando quanto scrive Federico Rampini ne L’impero di Cindia e nel più recente La speranza indiana, qualunque discorso di politica ed economia affrontato su scala internazionale (oggi l’unica verosimile se non vogliamo peccare di miope provincialismo) non può non considerare con grande attenzione l’importante spostamento del baricentro di influenza che il mondo sta vivendo.
La febbre delocalizzatrice imperversa oramai da anni, l’Europa si sta necessariamente impoverendo ogni giorno di più. In compenso, sto toccando con mano ed anche con piacere il progressivo emergere dell’India da condizioni di precarietà e sottosviluppo inimmaginabili per un comune europeo. Lo sviluppo della Cina poi è, notoriamente, più veloce ed imponente.
Pensare che le popolazione di questi due giganti asiatici siano sensibili a qualunque discorso che ne voglia contenere l’arricchimento per ragioni di natura etica, ambientale o altro è, a mio vedere, del tutto utopico.
Ricordo un documentario che vidi una decina di anni fa sull’India (probabilmente le riprese erano state fatte nel nord del paese, in stati come l’Uttar Pradesh, il Madhya Pradesh ed il Bihar, tra i più arretrati). Riguardava il traffico d’organi ed il grande business dei trapianti. Una cosa in particolare mi colpì e dà veramente la misura di quanto inarrestabile possa essere lo sviluppo del subcontinente: stando a quanto si vedeva in quel documentario (trasmesso dalla RAI, dunque probabilmente frutto del lavoro di buoni professionisti) in quel periodo era abbastanza comune che donne indiane, per comprare un televisore, si vendessero un rene. La regista aveva poi intervistato alcuni bambini i quali commentavano con eccitazione il fatto che fosse, tutto sommato, semplice comprare alcuni beni di consumo altrimenti inaccessibili. Alcuni di loro sostenevano di essere disposti, come la mamma, a vendersi un rene ma che anche il mercato delle cornee aveva prospettive promettenti. Uno di loro addirittura commentò con la regista: bella questa tua cinepresa, quanto pensi possa costare, un rene?
Ora io mi chiedo, conoscendo anche meglio il paese in questione, come possiamo pensare di arginarne lo sviluppo forsennato nel momento in cui, fino a poco tempo fa, contava tante persone che, per avere accesso a banali beni di consumo, erano disposte a vendersi alcuni organi essenziali del proprio corpo. In altre parole: riusciamo solo ad immaginare quanto feroce sia la determinazione di quella parte del mondo ad uscire da una povertà ancora estremamente diffusa per raggiungere il nostro livello di benessere? Io mi voglio spingere ad affermare, vivendo nelle loro case, dormendo sui loro tavolacci, vedendoli mangiare in terra, sulle stuoie, con le mani, vedendo i topi nelle strade, nelle cucine, nei supermercati che quell’aspirazione è non solo comprensibile ma legittima!
I costi? Probabilmente enormi — in termini ambientali, sociali e di ripercussioni economiche dalla nostra parte del mondo che sta vivendo l’avverarsi della profezia di Oswald Spengler quando, intorno agli anni ’20, scriveva il suo celebre Il tramonto dell’Occidente ― ma, altrettanto probabilmente, inevitabili!
Il tramonto dell’Occidente sta avendo luogo per ragioni, prima di tutto, banalmente contabili. Il costo del lavoro, in India, in Cina, nelle Filippine, in Vietnam, in Thailandia è notoriamente 10, 20, 30 volte più basso che in Europa o negli Stati Uniti, di qui quella di delocalizzare la produzione diventa una via più che appetibile per moltissime aziende occidentali. La conseguenza diretta non può che essere una crisi, in Occidente, che non possiamo più evitare di definire “sistemica”, che sta portando oltre ad una dilagante disoccupazione, ad un taglio progressivo ma inesorabile della spesa sociale. Come possono permettersela, i nostri stati ed essere al contempo competitivi con degli altri in cui il concetto di cassa malattia, contributi per la pensione, diritti sindacali eccetera sono, di fatto, una mera utopia?
Lo spostamento del baricentro economico e politico verso l’Asia non può che inaugurare una stagione di grande precarietà per l’Occidente pur offrendo opportunità interessanti ai paesi ed agli individui più intraprendenti. Ancora Rampini parlava, ad esempio, del business rappresentato dagli studenti cinesi che stanno letteralmente invadendo le università europee (soprattutto inglesi, francesi e tedesche) oltre a quelle americane.
In Asia si sta anche sviluppando, per offrire solo un altro esempio, un grande business del caffè (ne stanno guadagnando le italiane Lavazza ed Illy). La bevanda nervina sta diventando una moda di massa, determinando l’apertura di moltissimi locali trendy di catene come Starbuck, Barista o Coffe Day che spesso usano termini (cappuccino, espresso, macchiato) e caffè nostrani. Il quadro complessivo, tuttavia, non è rassicurante e la crisi greca, della Spagna, del Portogallo, la svalutazione della sterlina ed ora anche dell’euro sono lì a ricordarcelo.
Parlando di comunità intenzionali ed ecovillaggi, oggi, non possiamo, a mio parere, non tenere conto di questa crisi sistemica.
Il movimento delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi rappresenta, a mio parere, un interessante fenomeno di “globalizzazione dal basso”.
Prescindere, del resto, dalla globalizzazione, oggi, non è a mio parere vincente perchè sarebbe come pretendere di prescindere da internet o, se si viaggia, dalla lingua inglese. La globalizzazione è ormai un processo del tutto in essere, presenta dei problemi anche gravi ma, per dirla con uno slogan, “i problemi della globalizzazione si risolvono nella globalizzazione”.
Le comunità intenzionali e gli ecovillaggi, sappiamo, sono spesso confederati nel GEN (Global Ecovillage Network) e questa è già una prima, importante acquisizione.
Ad un livello forse ancora troppo teorico lavorano in rete ed il lavoro in rete, come insegna Fritjof Capra nel suo classico The web of life, La rete della vita, è un aspetto imprescindibile di un’auspicabile “globalizzazione dal basso”. Le comunità intenzionali e gli ecovillaggi, a mio modo di vedere, devono, come ho già detto in altre sedi e scritto sul mio ultimo libro Comuni, comunità, ecovillaggi, lavorare sempre di più in rete. Oggi non credo tante comunità isolate, pur potenzialmente autosufficienti, possano essere un soggetto politico interessante. Al contrario, tante comunità confederate, in rapporti di mutuo appoggio possono rappresentare un gruppo di interesse, di consistenza locale e planetaria, che può avere un ruolo via via crescente nel tentativo di bilanciare alcuni eccessi della globalizzazione deteriore. Lavorando, ad esempio, come gruppo di pressione per una valorizzazione sempre maggiore, nel mondo, delle energie rinnovabili o coinvolgendosi nelle rivendicazioni, capitanate da Naomi Klein, per il salario minimo dei lavoratori nelle zone industriali di esportazioni (dove si cuciono, per intenderci, le scarpe della Nike o della Reebok), consapevoli che un innalzamento del reddito nei paesi emergenti può contribuire a sanare, un minimo, l’enorme divario economico che vede Europa, Stati Uniti, Canada ed Oceania contrapposti ad Asia, Africa ed America Latina.
Citando dal mio ultimo libro Comuni, comunità, ecovillaggi «personalmente vedo [la dimensione comunitaria] come una [realtà] trasversale in cui possano trovarsi a proprio agio cristiani, laici, buddisti, gnostici, esoteristi, libertari, ecologisti, persone con credo politici diversi, finanche opposti. Dunque che possa avere un buon livello di coinvolgimento a par-
tire da un’appartenenza “a maglie larghe”, lontana da atteggiamenti
parrocchiani o manichei. Una dimensione espansa in cui, a fronte
di una relativa omogeneità interna alle singole esperienze comunitarie, persone anche molto diverse possano fare convergenza, nel net-
working, su pochi, importanti obiettivi comuni, cooperando nella
valorizzazione di quanto le unisce nel profondo: il desiderio, l’intenzione — con vari livelli di impegno — di “essere comunità”.
Credo sia auspicabile iniziare a concepire la trasversale dimensione
comunitaria come una “fratellanza” […] per affrontare a testa alta (non sfuggire) un mondo ogni giorno più complesso e, tuttavia, più affascinante».
In altre parole, le comunità intenzionali e gli ecovillaggi — che dovrebbero a mio modo di vedere avere come obiettivi la prosperità ed una buona efficienza organizzativa ― dovrebbero spendere tempo ed energia per sostenersi, anzitutto economicamente, a vicenda, privilegiando realtà simili per approvvigionarsi di quanto non riescono a produrre, cercando il più possibile di mantenere le proprie risorse economiche all’interno del proprio circuito allargato
Sarebbe dunque bello se alcune comunità intenzionali ed ecovillaggi riservassero uno spazio ai prodotti ed al materiale informativo di altre esperienze “affratellate” nei propri punti-vendita, se si intensificassero gli scambi culturali, organizzando, ad esempio, mostre, spettacoli, presentazioni itineranti che abbiano come protagonisti persone coinvolte, in un modo o
nell’altro, in ambito comunitario.
Sarebbe anche importante promuovere scambi internazionali tra comunità ed ecovillaggi. Per portare un esempio che meriterebbe di essere abbondantemente imitato, nella seconda metà del 2009 c’è stato un divertente ed ispirante scambio tra Findhorn Foundation e l’ecovillaggio, russo, Kitezh. I giovani di Findhorn hanno visitato Kitezh in estate, ricevendo una visita di ricambio in Ottobre. Per i dettagli, rimando al blog che ho curato per Sarvodaya o, direttamente, al sito del GEN.
Inutile soffermarsi sul fatto che il rafforzamento economico del circuito comunitario può agevolare le realtà più giovani o i singoli che voglia-
no compiere “il salto esistenziale” che possono inserirsi con le loro
attività, tanto per cominciare, in un network collaudato e, auspicabilmente, micro-redditizio.
Del resto, il numero di perone che guarda con interesse alla dimensione comunitaria è senz’altro crescente (dagli inizi del 2000 il numero di comunità intenzionali ed ecovillaggi, in Italia, si è, almeno, quintuplicato) e non credo sia difficile immaginare quanto tormentosa possa essere la scelta di lasciarsi alle spalle alcune, pur non entusiasmanti, certezze. Motivare persone nuove a coinvolgersi nel network comunitario può naturalmente portare una crescita di scala dello stesso, una via di uscita da quella che è, ancora oggi, una sua condizione di tendenziale marginalità “politica”, una sua maggiore incisività riguardo alcune rivendicazioni importanti come il riconoscimento legale delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi che altro non sarebbe se non un primo, significativo passo per un suo maggiore protagonismo su un set necessariamente globale.
A fronte di tutto questo credo sia necessario, per concludere, coltivare un’attitudine sufficientemente realista, evitando di indulgere troppo in ideologismi ingenui o in spiritualismi astratti, consapevoli delle difficoltà di questo periodo storico e, allo stesso tempo, delle risorse di coloro che, autonomi ma uniti, possono davvero contribuire a “fare la forza”!

Manuel Olivares