Anche oggi ho il piacere di segnalare un video attraverso questo blog-magazine. Ne è protagonista Vandana Shiva, scienziata ed ecologista indiana, una dei leaders del movimento No Global che, a parere di chi scrive, è ormai un po’ (tanto) datato, soprattutto nella definizione. Non si può difatti negare qualcosa che è oggi pienamente in atto, la globalizzazione, si tratta piuttosto di distinguere tra una globalizzazione sana ed una deteriore che non possono non essere, come sempre accade, due facce della stessa medaglia.
Intervistai Vandana Shiva nel 2006 per conto del mensile ecologista (e un po’-tanto “piagnone”) AAM Terranuova.
La raggiunsi ad Hauz Khas, uno dei quartieri migliori di Nuova Delhi. Avevo una notte sulle spalle e mi dovetti sobbarcare una lunga attesa prima di essere ricevuto. Mi accolse, infine, con inglese oxfordiano ed una palpabile dimestichezza con i media.
Trovo che Vandana Shiva stia facendo delle battaglie sacrosante, come quella presentata nel video che ho deciso di segnalare ma, allo stesso tempo, è un personaggio che mi lascia perplesso per diverse ragioni che menzionerò tra breve.
Lo sviluppo indiano, il sogno/miracolo economico del subcontinente non manca di avere i suoi martiri.
Cito dal Times of India (6 Gennaio 2011): «According to poverty figures put out by the World Bank the number of poor in India – defined as people earning less than $ 1.25 per capita per day in purchasing power parity terms – rose from 435,5 million in 1990 to 455,8 million in 2005».
Traducendo rapidamente, per chi non conoscesse l’inglese: «Il numero dei poveri (secondo i criteri della Banca Mondiale che identifica come tali quelle persone che guadagnano, individualmente, meno di un dollaro e venticinque al giorno, a parità di potere d’acquisto) è cresciuto, in India, dai 435,5 milioni (dato del 1990) ai 455,8 milioni (dato del 2005)».
Ciò non toglie che, stando ad un’altra stima, la classe media indiana dovrebbe raggiungere i 600 milioni di persone entro 10 anni.
Lo sviluppo indiano ha dunque due facce: c’è chi sta finalmente acquisendo uno standard di vita “umano” (in questi giorni a Varanasi si gela ed io sono una delle poche persone che utilizza un paio di scaldini a gas in casa e vengo per questo considerato quasi un eccentrico in quanto l’indiano medio ne può ancora sostenere i costi con una certa difficoltà. La gente vive dunque imbacuccata dentro casa, starnutendo e tossendo di frequente) ed è questo un fenomeno che considero, fuor d’ogni moralismo ed ideologismo, del tutto positivo ma c’è anche chi sta sprofondando in una condizione di ulteriore disagio, superando la soglia dell’indigenza.
A fronte di questo trovo che quanto si debba fare non sia solo accusare le multinazionali ed il modello di sviluppo che sta vivendo il paese. Ed è qui che non sono d’accordo con Vandana Shiva che, con il suo inglese oxfordiano, sostiene, per dirla alla grossa, che si stava meglio quando si stava peggio, quando si era poveri (per quanto il termine “poveri”, almeno per la metà degli indiani ― di cui non ha mai fatto parte, naturalmente, Vandana Shiva ― fosse letteralmente un eufemismo) ma sereni. Intendiamoci, per citare il titolo di un libro del compianto amico editore Angelo Quattrocchi “le multinazionali fanno male” ma temo davvero che, nel caso dell’India, al di là di problematiche esogene (che ovviamente ci sono ed è bene vengano affrontate molto seriamente, do tutto l’appoggio a Vandana Shiva da questo punto di vista), si debbano guardare in faccia quelle endogene. In altre parole, credo si debba analizzare a fondo ed in maniera critica la cultura tradizionale del paese per mettere ordine tra le cause e gli effetti di aspetti peculiari della sua “personalità”.
Ancora fuor d’ideologismo, sono convinto che una delle chiavi fondamentali per comprendere la cultura indiana (stando almeno alle idee che ho potuto sviluppare in oltre 5 anni di vita nel paese) sia il sistema castale, riconducibile ad un preciso ordine cosmico e spirituale: il dharma.
Fare una panoramica storica del fenomeno delle caste è piuttosto arduo in questa sede e si dovrebbero anche fare cenni importanti di storia dell’India antica. Per dirla in breve: sembra acquisito che le caste siano state un prodotto dell’espansione ariana nel subcontinente, a partire dal tremila A.C. Sarvepalli Radhakrishna, saggista prolifico, presidente della Repubblica Indiana dal 1962 al 1967, nel suo Indian Philosophy scrive che l’imposizione di un sistema castale abbia rappresentato un tentativo, da parte degli invasori ariani (di pelle chiara), di preservarsi etnicamente dal meticciaggio con gli autoctoni dravida (di pelle scura). A margine di questo merita menzione che la stessa questione dell’autoctonia è piuttosto controversa in quanto non manca chi sostiene gli ariani fossero stati autoctoni del subcontinente e non provenissero, come sostiene invece la maggioranza degli studiosi, dall’Asia centrale.
Sia come sia le caste sono una realtà, in India, con una storia ed una solidità millenarie. Sappiamo che il Mahatma Gandhi si spese molto contro alcuni aspetti della cultura castale, conferendo addirittura l’incarico di scrivere la costituzione della Repubblica Indiana al Dottor Ambedkar, un “fuoricasta” (“intoccabile” o, per usare il termine più appropriato, un dalit, “un oppresso”, “un massacrato”) che, naturalmente, rese le caste anticostituzionali.
Fu un importante passo in avanti ma non certo risolutivo e la dimensione castale continua a permeare profondamente il subcontinente.
Chiunque abbia un medio livello culturale sa della realtà dei “fuoricasta”, in India, dei dalit: l’ultimo scalino della struttura sociale del paese.
Visitando il sito www.dalits.org, legato alla National Campaign on Dalit Human Rights ho trovato una definizione che credo calzi abbastanza bene al fenomeno in analisi: apartheid nascosta. Viene inoltre menzionato, nello stesso sito, il numero attuale dei dalit in India: 170 milioni di persone che continuano spesse volte a subire circa 140 tipologie discriminatorie create dal sistema castale dominante (che, per chi proprio non lo sapesse ha nei bramini, negli kshatriya e nei vaishya ― rispettivamente le tradizionali caste “intellettuale/ierocratica”, “guerriera” e dei commercianti ― le tre caste privilegiate e negli shudra, i servi, la casta inferiore, cui seguono, neanche degni di essere inseriti nel sistema castale, i già menzionati dalit) per approfondire le quali vi invito a cliccare qui.
Dunque, iniziando a fare qualche conto, dell’attuale miliardo e duecento milioni di persone, in India, 170 milioni (quasi un sesto) subiscono un’apartheid nascosta e, stando ancora a quanto si legge nel sito www.dalits.org, vivono in condizioni semplicemente “disumane” (basta vivere un minimo nel paese per rendersi conto che il sito menzionato non riporta sciocchezze).
Rimanendo in rete, citando la voce “India” di wikipedia, troviamo altri dati interessanti, altri numeri (che aiutano a rendere il discorso poco fumoso).
Cito:
un quarto della popolazione della nazione si trova sotto la soglia di povertà individuata dal governo in 0,40 $ al giorno . Nel 2004-2005, il 27,5% della popolazione viveva sotto tale soglia.
La percentuale di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà internazionale di 1,25 dollari al giorno è comunque diminuita dal 60% nel 1981, al 42% nel 2005. L'85,7% della popolazione viveva con meno di 2,50 $ (PPP – a parita’ di potere d’acquisto -) al giorno nel 2005, rispetto al 80,5% dell'Africa sub-sahariana.
Diciamolo: non è un quadro molto confortante.
Credo di poter definire la cultura tradizionale indiana, pur a fronte di una straordinaria tradizione mistica, profondamente autoritaria ed illiberale, lo si coglie anche nei comportamenti minuti delle persone. La mia interpretazione di questi dati è che l’élite del sistema castale dominante abbia deliberatamente voluto mantenere la stragrande maggioranza della popolazione in uno stato di “impotenza”, di incapacità di rivendicare maggiore distribuzione della ricchezza (va detto che, sull’altro piatto della bilancia, citando un dato del famoso giornalista e scrittore indiano Tarun Tejpal, tra i 10 uomini più ricchi del mondo, 4 sono indiani) e, più in generale, maggiore potere. La povertà è un ottimo strumento di controllo sociale come, del resto, il mantenere buona parte della popolazione nell’ignoranza (oggi in India ci sono ancora il 35% di analfabeti che, solo quindici anni fa, erano più del 50%).
I salari dei lavoratori indiani sono sempre stati tra i più bassi del mondo (basta considerare i dati di Wikipedia) e nel paese non esistono organizzazioni sindacali in grado di incidere davvero a livello politico.
In presenza di una forte chiusura, fino agli inizi degli anni ’90, del paese ai capitali stranieri, di una sedicente politica interna socialista (mi chiedo quale socialismo possa essere quello che, di fatto, non preveda una sanità pubblica ed un accesso universale all’istruzione, per citare appena due esempi) e dunque di un sistema burocratico proverbialmente kafkiano non c’è, a mio parere, da meravigliarsi che sia rimasto, fino ad oggi e malgrado le grandi risorse, a livelli spaventosamente di terzo mondo.
Che sviluppo ci può essere in un paese dove oltre l’ottanta per cento della popolazione si può permettere, quando se la può permettere, a malapena la sopravvivenza? Nel momento in cui pochissimi sono in grado di consumare (e non parliamo qui di “consumismo” ovvero di forme degenerate di consumo ma di “consumo sano”, “legittimo”) in che misura è possibile produrre merci e, di conseguenza, lavoro?
Un discorso a parte meriterebbero i livelli inverosimili di corruzione capillare, un fenomeno che è sempre più presente, almeno formalmente, nell’agenda della leadership politica attuale, oltre alla capacità del popolo di convivere con condizioni igienico-sanitarie a dir poco disperate (anche se anche a questo riguardo i miglioramenti, negli ultimi anni, sono notevoli).
Sappiamo, del resto che, oggi, la situazione sta cambiando, in virtù di una “rivoluzione liberale” inaugurata dall’attuale premier Manmohan Singh.
Credo davvero sia quello di cui il paese ha bisogno malgrado quanto sostengono sopravvissuti No Global (magari ubicati nella Toscana Felix, che si riempiono la bocca con l’austerità e la frugalità degli altri, essendosi sempre guardati bene anche solo dallo sfiorarne i livelli più tollerabili) o, ad esempio, alcuni sostenitori del “paradigma gandhiano”, tra i quali rientra, in parte, anche Vandana Shiva.
Alcuni di questi identificano nell’utopica India dei villaggi e dei loro consigli di anziani-saggi (panchayats) un’alternativa all’attuale modello di sviluppo. Propendono per un’India che mantenga una propria tradizionale attitudine frugale e, sostanzialmente, perpetui una economia poco più che di sussistenza. Un’ipotesi che manca, mio vedere, del tutto di realismo proprio in virtù del fenomeno che, a partire da Seattle, con scarsa fortuna ed il vessillo di una sigla ingenua, si è voluto negare: la globalizzazione.
La globalizzazione “buona”, delle informazioni che circolano in tempo reale attraverso internet non può non fare piazza pulita, nel tempo, di molti localismi e tradizionalismi (inclusi, vivaddio, quelli indiani). È questo, naturalmente, un processo controverso (di annacquamento culturale ma anche di rinnovamento delle rispettive dimensioni valoriali), un passaggio sicuramente critico ma non si può realisticamente pensare che, a fronte di esso, i giovani indiani non desiderino vedere e permettersi di vivere un po’ di mondo ben oltre le possibilità della realtà virtuale.
In poche parole, credo sia ragionevole pensare che i giovani indiani, più di quelli occidentali, vogliano una sola cosa: benessere, superando le pastoie di una cosiddetta cultura tradizionale che, stando a quanto argomentato sino ad ora, inizia ad essere del tutto anacronistica senza, peraltro, aver mai brillato per riuscita sociale.
Benessere e maggiore libertà, maggiore spazio alle esigenze dell’individuo che ha sempre dovuto sottomettersi, in India, ai dictat della tradizione, essendone vissuto più che essere libero di vivere la propria vita e, dunque, libero di scegliere.
Paradigmatico, in questo senso, il fenomeno dei matrimoni arrangiati dalle famiglie, ancora prevalenti in buona parte del paese.
La dimensione castale, inoltre, ha sempre ridotto al minimo la mobilità sociale, ragion per cui fino a pochi anni fa chi nasceva in una famiglia inserita in un determinato ramo professionale ha spesso subito una quasi condanna a dover svolgere, a sua volta, il mestiere o la professione dei propri genitori, con al fianco una moglie o un marito che non sono stati per nulla soggetti di scelta.
È quella che io definisco “la tragedia dell’ineluttabilità” che ancora affligge profondamente il popolo indiano.
Più in generale, trovo che la cosiddetta cultura tradizionale indiana sia molto una cultura del dominio e della sottomissione che sta iniziando a mostrare crepe irreversibili anche in un altro ambito cruciale: la formazione universitaria.
Cito un altro articolo dal Times of India (26 Dicembre 2010) dal titolo illuminante: In new India, more guides than gurus:
For generations, the professor was the unquestioned god and guru of the Indian classroom, able to hold forth for hours with no one daring to ask a question or confess they hadn’t understood a concept. Students would kneel and touch the teacher’s feet whenever they met as a sign of unfaltering respect.
Traducendo, in breve: per generazioni il professore è stato l’incontestato dio e guru della classe di studenti indiani, capace di andare avanti per ore senza
che nessuno osasse fare una domanda o confessare che non aveva capito un concetto. Gli studenti dovevano inchinarsi e toccargli i piedi ogni qualvolta lo incontravano, in segno di indiscusso rispetto.
Tutto questo, argomenta Emily Wax nell’articolo, ha creato generazioni di professionisti troppo intimiditi per proporre proprie idee. Il boom economico di questi anni, tuttavia, sta iniziando a richiedere, esplicitamente, quadri professionali più creativi.
Ironia della sorte, i professori boriosi stanno dunque finendo, a loro volta, sui banchi di scuola.
La WIPRO, la terza più importante società indiana di tecnologia dell’informazione, ha iniziato infatti ad organizzare trainings per “degurizzare” i professori facendone piuttosto ― più laicamente e forse, per alcuni, prosaicamente ― dei “formatori”.
Già diecimila professori sono in via di “degurizzazione” ed è previsto ne vengano “degurizzati” altri venticinquemila nei prossimi tre anni.
A fronte della soggezione degli studenti nelle scuole, è difficile pensare ci sia molta più intraprendenza nel mondo del lavoro e, più in generale, nella vita sociale del paese, dove le gerarchie vengono venerate nella misura in cui sono, profondamente, temute.
Ed ecco che i nodi vengono al pettine delle battaglie di Vandana Shiva.
Le multinazionali (che in molti casi rappresentano la vergogna dell’economia di mercato nella stessa misura in cui il socialismo reale ha profondamente oltraggiato gli ideali socialisti) si stanno potendo permettere di saccheggiare il paese, di fare delle autentiche porcate (come quelle che si vedono nel video in questione) perché, tra le altre cose, possono far leva sulle tante espressioni della sua arretratezza: povertà, analfabetismo, ignoranza, profondo assoggettamento della popolazione, violento autoritarismo dei poteri locali.
Un’arretratezza tutta indiana, di cui la leadership del paese deve trovare il coraggio di farsi carico e, dunque, dei martiri del sogno indiano e dei 170 milioni di innocenti che subiscono, ogni giorno, le abiezioni di un’apartheid nascosta.
Un paese di gruppi di interesse, soggetti politici e sociali meno assoggettati, meno sprovveduti e più attivi, potrebbe iniziare ad avere alcuni validi elementi per essere meno permeabile alle espressioni degenerate del libero mercato.
Di seguito una breve introduzione al video, presente sul sito di olisticatv ed il video stesso.
Come fanno le multinazionali ad introdursi nei mercati locali, distruggendo le economie e gli equilibri fondati sulla biodiversità e sulla tradizione?
L'esempio dell'India, dove l'olio di senape non è solo un alimento economico tradizionale, ma anche una panacea ayurvedica per molti mali. Eppure, con un pretesto, è stato bandito nell'intero continente, escluse le confezioni industriali, spianando la strada all'ingresso degli olii importati, in particolare quello di soia, molto meno adatto all'alimentazione in India a causa delle sue caratteristiche organolettiche.
Ne parla Vandana Shiva, scienziata e attivista ambientalista indiana nota in tutto il mondo per il suo impegno a favore della tutela della biodiversità (qui intervistata da Werner Weick e da Marilia Albanese), appellandosi alla forza delle donne come principio creativo e rigeneratore (Shakti).
Il video