TRANSUMANZA

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lunedì 26 settembre 2011

Che McDonald sia con loro!

Naturalmente questo post vuole essere una sorta di provocazione e, tuttavia, non credo possa limitarsi solo a quello. Partiamo da una banale esperienza quotidiana, a Varanasi. Il monsone, quest’anno, sta inspiegabilmente (almeno per le persone comuni) prolungando la sua espressione di pioggia anche in un periodo in cui, generalmente, si vive all’asciutto. Buona parte della città ha le strade allagate, le fogne, del tutto inadeguate malgrado i recenti lavori di ristrutturazione, tracimano e dunque le strade, oltre ad essere allagate, sono sommerse da acque di un colore inquietantemente marrone.
Come se non bastasse nel mio appartamento (dove spesso mi barrico per evitare frustrazioni ed incazzature) è finito il gas. Missione mattutina, dunque: andare a fare colazione. Dire che sia stata un’impresa è dire poco. Ormai mi rifiuto di bere il tè nei baracchini sulla strada, ho già avuto sufficienti problemi di salute e, con le strade sott’acqua fognaria, non mi sembra proprio il caso di eccepire a questa sana abitudine. Decido dunque di raggiungere, quasi a nuoto, l’IP Mall, nel quartiere di Sigra che all’inizio chiamavo, ottimisticamente, la piccola Bangalore essendo il centro produttivo della città. Nell’IP Mall c’è un locale della catena di Coffe Day che buon successo sta avendo in un paese in corsa per lo sviluppo e che dunque sta individuando nel caffé più che nel tè la sua bevanda-combustibile. Giunto all’IP Mall devo aspettare almeno 20 minuti per essere servito. La cosa peggiore è che ci sono appena un paio di tramezzini — oltre ai vari caffé, cappuccino eccetera — che, avrò modo di vedere, fanno schifo. Appena fuori il locale, visibile dalla parete di vetro, c’è un dignitoso venditore di momo (simili ai ravioli al vapore dei nostri ristoranti cinesi). Dentro al Coffe Day si sta bene, c’è l’aria condizionata ad un livello, direi, ideale. Dunque penso: «mi prendo un piatto di momo, ordino qualcos’altro da bere e me ne sto qui con il mio romanzo di Joseph Conrad». Chiedo al cameriere se posso regolarmi in questo modo, in virtù del fatto che loro non hanno nulla da mangiare ma la risposta è decisa: no. Ok. Decido di sedermi in uno spazietto riservato ai clienti vicino al venditore di Momo. Non c’è l’aria condizionata del Coffe Day ma comunque si sta al coperto e dunque non c’è da stare poi così male. Chiedo un piatto di chicken momo ed il ragazzo nepalese che gestisce il chioschetto mi guarda con occhi peculiarmente lessi. C’è da aspettare 5 minuti (i 5 minuti indiani, in altre parole i momo chissà quando saranno pronti) ed io me ne vado. «Sai che c’è», penso tra me, «faccio colazione dal McDonald, poco distante dal chioschetto di momo e dal locale del Coffe Day nello stesso grande edificio commerciale della “piccola Bangalore”». Improvvisamente la dimensione socio-esistenziale cambia. Non ci sono più disservizi, non c’è più da aspettare, non ci sono più solo 4 tramezzini rachitici (malgrado la buona fama ed organizzazione dei Coffe Day) ma, pur essendo poco oltre l’orario di apertura (circa le 10.30), i panini sono già pronti, l’aria condizionata è a livelli ottimali, il personale è sorprendentemente gentile (notoriamente le buone maniere e Benares sono due pianeti distinti), non ci sono problemi di resto (altro leitmotiv angosciante in città dove pagare un importo, ad esempio, di 60 rupie con una banconota da 100 può essere una piccola-grande fonte di problemi, tempi morti, frustrazioni, eccetera), ordino e, dopo cinque minuti, son seduto a mangiare.
Nel frattempo guardo la tv al plasma. Siamo da McDonald, in un mondo finto e, tuttavia, per diversi aspetti, auspicabile, in una sorta di utopia consumista. Sullo schermo scorrono immagini di famiglie indiane felici, che hanno appena comprato la nuova Maruti Suzuchi, di docenti che scrivono sulla lavagna, per i piccoli studenti: «la differenza tra possibile ed impossibile risiede nella tua determinazione», di frigoriferi spaziali che possono rappresentare il sogno di tornare presto a casa, in una bella casa, per farsi un bel drink dopo una giornata di lavoro. Tutto questo, in una città come Benares, sedicente capitale spirituale dell’India, vi assicuro che ha un valore palpabile. Può davvero rappresentare l’auspicabile India di domani dove le famiglie abbiano ciascuna una bella macchina (che magari, nel frattempo, sia stata adattata ad andare ad idrogeno, olio di colza, piscio di gatto, quello che volete basta che non inquini), un bel frigorifero ed un livello di vita generalmente accettabile, invece di rodersi, come accade oggigiorno, in frustrazioni, livori, invidie perchè si vive in case torride d’estate e gelide d’inverno, perchè si guida su strade allagate o spaventosamente polverose, sbucazzate e dove si finisce per procedere in modo sussultante per la gioia di chi soffre di sciatica, perchè ci si relazione con persone invelenite, inasprite, abbrutite da una vita grama, scomodissima, feroce.
Questo non significa che la felicità debba essere identificata, sic et sempliciter, con la soddisfazione di bisogni materiali ma questa, senz’altro, ne costituisce uno dei presupposti fondamentali, una condizione necessaria pur se non sufficiente (su quanto di altro ci vorrebbe potrò scrivere una prossima volta, ora diventerebbe troppo complesso entrare nel merito). Stando alla mia esperienza di quasi sei anni a Benares e a quanto leggo, quotidianamente, sui giornali locali, non credo assolutamente che i banarsi siano, in maggioranza, “poveri ma felici” o “poveri ma sereni”. Al di là dell’incarognimento quotidiano che vedo con i miei occhi, leggendo il Times of India emerge che il paese ha indici di depressione tra i più elevati del mondo. Che è al quarantasettesimo posto su 50 paesi considerati per il “tasso di felicità”, che il numero di suicidi, soprattutto femminili o dovuti al nonnismo nelle università è, nuovamente, tra i più elevati del mondo. Insomma, io direi: finiamola di mistificare. Questo paese, a mio vedere, ha bisogno fondamentalmente di tre cose: sviluppo, sviluppo, sviluppo.
Uno sviluppo sociale e culturale oltre che materiale. Uno sviluppo in virtù del quale le persone si organizzino (come sembra stiano iniziando a fare) per rivendicare una più decente qualità di vita, quella stessa che possono vedere sullo schermo al plasma di McDonald. Una migliore qualità collettiva oltre che privata (e qui, naturalmente, quanto si vede da McDonald non basta più, ci vorrebbero diverse forse di produzione culturale, in buona parte di matrice, diciamolo, europea): strade migliori, ospedali governativi appena decorosi (oggi sono degli orridi lazzaretti), scuole governative dove i docenti si degnino di presentarsi. Una maggiore ricchezza, of course ma anche una maggiore distribuzione della stessa, in barba alle superate distinzioni castali.
Con Anna Hazare, il militante gandhiano che ha sfidato di recente il governo indiano con uno sciopero della fame rivendicando provvedimenti contro la corruzione dilagante nel paese, credo che si siano iniziati a muovere primi, interessanti, passi.
Leggevo un bell’articolo sul Times of India in cui si ricordava la primavera (scorsa) araba che aveva preso corpo molto grazie ai social networks. La primavera araba stava destando qualche preoccupazione, in India (lo ricordo personalmente, leggendo i giornali in quei giorni), ovvero si temeva che i social networks potessero creare trambusto anche qui. Il giornalista dell’articolo menzionato, circa un mese fa, chiudeva il cerchio scrivendo: a Febbraio-Marzo si temeva che le rivolte del mondo arabo potessero avere dei riverberi anche in India, oggi, con Anna Hazare, possiamo affermare che questi non abbiano tardato a verificarsi. Anna Hazare ha, difatti, avuto milioni di sostenitori sul web ed ha ispirato un movimento sociologicamente interessante.
Spero davvero che sia solo l’inizio perchè anche io credo, con Federico Rampini, alla speranza indiana. Credo sia una speranza che trascenda, pur conservandone i pochi aspetti di pregio, la cultura tradizionale del paese (che molti temono scompaia; speriamo…). Una cultura che ha creato dei presupposti tali per cui una delle peggiori multinazionali del mondo possa rappresentare, qui, un buon veicolo di “civiltà”. Sappiamo, del resto, le grandi ombre che gravano su McDonald che vende, quotidianamente, “sfizioso veleno” e, tuttavia, di quante migliaia di persone non si parla che muoiono quotidianamente a causa del sottosviluppo? Quante persone stanno perdendo casa, in questi giorni, per colpa delle alluvioni, di alluvioni che giungono non di rado con il monsone ed i cui effetti devastanti nessuno si preoccupa di prevenire? L’India ha i tassi di malnutrizione ed anemia tra i peggiori al mondo, scrive il giornalista Swaminathan S Anklesaria Aiyar, sul Sunday Times del 18/9/2011, mentre il sistema respiratorio degli indiani è il peggiore in Asia (e la soluzione non è far circolare meno veicoli ma organizzarsi per farne circolare se non di più ecologici almeno di meno cancerogeni) e solo il 12% delle donne ha accesso agli assorbenti, le altre ricorrono a sabbia o stracci nelle mutande, esponendosi alle peggiori infezioni.
A fronte di tutto questo (e di molti altri dati che si potrebbero citare in merito alla mortalità infantile ed al lavoro minorile, alle centinaia di milioni di indiani ancora analfabeti — sono circa il 35% — all’aborto selettivo ed all’infanticidio femminile) McDonald è, potremmo dire, quasi una mammola e, quando tutto manca, proietta una “quasi sana utopia consumista”, ovvero un’idea, pur edulcorata, di benessere che, tuttavia, può rappresentare una valida fonte di ispirazione per tutti loro che stando tentando di risalire la china, in India, di una variegata gamma di “orrori quotidiani”.
Naturalmente non sto dicendo che la soluzione agli infiniti mali del paese possa essere McDonald (staremmo freschi…) ma che in una desolazione ancora profondissima del paese, possa paradossalmente rappresentare, quantomeno, un primo modello di riferimento, una prima, pur edonista, utopia di benessere.
Che McDonald sia con “loro”, dunque e che qualcuno individui presto i successivi passi da fare per adeguare le condizioni di vita del paese al suo vertiginoso tasso di crescita economica.