TRANSUMANZA

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mercoledì 24 febbraio 2010

Decrescita sì, decrescita no!

Questo post è in risposta al commento di un bioniere, Enrico, a seguito di un mio post precedente, pubblicato anche sul social network bionieri.ning.com in cui, parlando della Fattoria Macinarsi, mi sono concesso alcune riflessioni sulla cosiddetta decrescita felice:

Ciao Enrico;
ti ringrazio per il tuo commento e per aver sollecitato la necessità di un dibattito sul tema della decrescita.
Io, francamente, non vorrei si finisse a parlare del sesso degli angeli perché discorsi del genere possono peccare, a mio vedere, di eccessiva astrazione, dettata anche dall’impronta anacronisticamente ideologica.
Allo stesso tempo, credo sia necessario affrontare (senza eccessi) il discorso perché io vedo i rischi di un paradigma che ci può portare fuori strada.
Vengo dunque a considerare i punti fondamentali della mia prospettiva:

A) La decrescita come scelta esistenziale è più che rispettabile. Coloro che decidono di impostare la propria vita all’insegna della semplicità e della riduzione radicale dei consumi, scegliendo piuttosto di coltivare al massimo l’autoproduzione, la creatività, la parsimonia, eccetera, possono avere tutte le ragioni esistenziali per farlo. A mio modo di vedere è una scelta che ha qualcosa di ascetico e lo dico senza giudizi di valore, vivendo la maggiorparte del mio tempo in una città, Varanasi, piena di asceti. Ci sarà chi obietta: no, non si tratta di essere asceti e mi va bene lo stesso. In una parola, nel momento in cui si sceglie la decrescita come istanza esistenziale: nulla questio! Piuttosto: rispetto e sana curiosità;
B) Il discorso cambia quando si propone la decrescita felice come paradigma di natura politico-economica. A questo punto non posso non sottolinearne quelli che sono, a mio parere, i tragici punti deboli. Consideriamoli brevemente, partendo da un semplice assunto: è politicamente perdente! Vediamo perché:

1)E’ difficile abbia un qualunque appeal nell’Occidente satollo, solo una minima parte del quale, oggi, disorientata, disgustata, in crisi di senso, ha focalizzato la propria attenzione su quelli che considera essere gli svantaggi del cosiddetto “benessere materiale” e dunque ne fa il proprio principale bersaglio. Bersaglio, a mio modo di vedere, sbagliato perché distoglie l’attenzione dal vero responsabile delle tribolazioni del mondo: l’essere umano, non la produzione, il consumo, il denaro considerati come categorie a priori.
2)Ha zero appeal, zero assoluto, nei paesi emergenti. Iniziando a conoscere l’India, avendo vissuto un periodo in Nepal, Thailandia, Sri Lanka, vi assicuro che la recettività di quei popoli al paradigma della decrescita è meno che nulla! Non sono ancora stato in Cina ma dalle notizie che mi giungono non mi sembra proprio ci sia spazio per concetti come quelli in esame. L’economia thai, poi, è in buona parte in mano ai cinesi ed avendoli visti un minimo all’opera non posso che commentare: si salvi chi può, altro che decrescita felice!
Parliamo di paesi dove (soprattutto in India e Thailandia, per quello che ho potuto vedere) si respira una grande adrenalina, una grande eccitazione per un semplice, chiaro obiettivo comune: avere introiti sufficienti per potersi finalmente permettere una vacanza, far studiare i figli in scuole prestigiose, per provare ad offrire loro un futuro di vita meno grama, per potersi permettere quel che di bello offrono le nuove tecnologie senza sospirare che bisogna tagliare sui vestiti, sulle scarpe, eccetera.
A fronte di questo, con circa metà della popolazione mondiale che vive nel versante asiatico emergente ed ha in testa un unico obiettivo (come abbiamo visto, del resto, in occasione del G8 a L’Aquila o del summit sul clima a Copenaghen): sviluppo, che vogliamo fare, "la decrescita in un paese solo"? Magari nella "Toscana Felix"? E’ un controsenso!
3) Seppure, per assurdo, il paradigma della decrescita felice dovesse avere successo, non bisogna essere laureati in economia per capire che avrebbe un effetto devastante a livello sociale ed economico. Contrazione dei consumi porterebbe difatti (ed in parte sta già portando): recessione, fallimenti, disoccupazione dilagante, disperazione, ne guadagnerebbero i farmacisti, le rivendite di alcolici e, soprattutto, la criminalità organizzata.
Non venite a dirmi che la disoccupazione non sarebbe un problema perché si sarebbe imparato a fare lo yogurt a casa, a prendere l’acqua alla fontana eccetera perché davvero si finirebbe a parlare del sesso degli angeli!
4) La soluzione, dunque, non può che essere, a mio parere, nel mercato, rimanendo nella logica del mercato, senza cercare scorciatoie originali. Sì ai consumi, dunque, si tratta di vedere quali consumi e su questo si può tornare a parlare quanto si vuole.
5) Enrico obietta che quando i nostri imprenditori delocalizzano la produzione ed i nostri operai fanno una vita infame che può anche portare a decisioni estreme stiamo veramente tornando indietro. A questo punto è d’obbligo una provocazione: ce la facciamo a rivendicare (come proponeva Naomi Klein) redditi più alti nei paesi in via di sviluppo? Sarebbe un’ottima iniziativa; migliorerebbe la vita dei lavoratori in loco ed arginerebbe, un minimo, la febbre delocalizzatrice. Pensiamo di farcela, contro la volontà dei governi di quegli stessi paesi il cui sviluppo economico è direttamente legato proprio al basso costo del lavoro? Potrebbe essere, ripeto, un’idea interessante: andare a rafforzare un movimento, quello sì, mondiale con l’obiettivo menzionato. Ci si può lavorare!
Altrimenti bisogna iniziare a dialogare con i paesi emergenti, capire bene che linguaggio parlano, di quale cultura sono portatori e che possibilità possono offrire. Sappiamo che il presente e, ancor di più, il futuro, appartengono ad un mondo in cui le distanze geografiche sono, in buona parte, abolite. Ad un grande mercato dove tutti delocalizzeranno sempre di più, dove delocalizzare diventerà sempre più la norma. Federico Rampini ne L’impero di Cindia invita i nostri giovani a conoscere meglio la sezione di mondo in titolo, a sondarne le opportunità, a pensare di coglierne alcune sfide. Potrebbe essere interessante; in una situazione, di casa nostra, dove il lavoro dipendente è sempre meno vantaggioso e, soprattutto, sempre più raro, bisogna iniziare ad entrare nell’ottica di inventarselo il lavoro! Si può fare, in Italia come in India, in Thailandia (solo a Chiang Mai, seconda città tailandese, ci sono oltre 20 ristoranti italiani), in Cina o in America; essere disposti a mettersi in gioco in un mondo che è quello che è, comprendendo che è inutile mugugnarci su cercando piuttosto di proiettare, nel lavoro, il proprio livello di crescita integrale, la propria etica, il proprio rispetto per l’essere umano. Si tratta di vedere se questi sono valori che hanno acquisito sostanza o sono solo chiacchiere; nel primo caso possono provare ad affermarsi nell’arena.
6) Senza dimenticare alcuni saggi insegnamenti di pensatori del passato, ad esempio Pierre Joseph Proudhon che parlava di mutuo appoggio, di cooperazione tra realtà affini per creare circuiti economici autonomi, in grado di autoalimentarsi. E’ quello, ad esempio, che si può fare nell’ambito delle comunità intenzionali e degli ecovillaggi, ogni giorno un gruppo di interesse più nutrito. Ho già sollecitato la necessità che le comunità intenzionali e gli ecovillaggi si mutuo-sostengano e mutuo-appoggino, creando un proprio circuito economico relativamente indipendente. Qualcosa si sta muovendo anche nell’ambito della RIVE (sta iniziando, ad esempio, a prendere corpo un mercatino virtuale) e credo sia questa una strada da seguire con costanza e dedizione. Non ci sarà modo di arricchirsi, i primi tempi si dovrà un po’ decrescere ma, a quel punto, il gioco potrebbe valere la candela e si rimarrebbe, pur con un atteggiamento diverso, in una sana logica di mercato.
7) Proprio in ultimo, la scottante (è il caso di dirlo) questione del global warming. Credo sia inutile strapparsi troppo i capelli; il destino è già deciso da Washington a Nuova Delhi passando per Palazzo Grazioli. L’alternativa ai combustibili fossili è un cocktail di energie rinnovabili e nucleare. Quest’ultimo sappiamo essere costoso, rischioso e, in Occidente, impopolare. Malgrado questo, politici intelligenti come Barack Obama negli Stati Uniti o Manmohan Singh in India stanno avviando la costruzione di nuove centrali. Sono stupidi, corrotti o, forse, il nucleare è una via obbligata?

Ci lasciamo con questo quesito; una sola preghiera: non venitemi a raccontare che, a fronte di questo ed altri dilemmi, l’alternativa è chiara e netta e si chiama “decrescita felice”!

P.S. Nell’esporre il mio punto di vista ho probabilmente peccato di semplicismo; sono solo alcune osservazioni a caldo, per dare appena qualche spunto di riflessione. Non me ne volete per l’inevitabile superficialità!