TRANSUMANZA

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mercoledì 17 febbraio 2010

Itinerari Tamil, parte seconda.

Per la prima parte cliccare qui!

Arriviamo intorno alle 11.00 di mattina. Un cancello un po’ meno imponente di quello della nottata di party si apre ad accogliere il SUV.
In terra una donna emaciata, con una vestaglia logora indosso, ci offre un’accoglienza senz’altro meno formale di quella dei portieri.
Parcheggiamo ed entriamo in un grande edificio. Ci accoglie un ragazzo inglese, magro, la barba un po’ incolta, il colorito giallognolo.
Siamo presto in una piccola cappella, con poche panche dinanzi ad un altare ed un modesto presepe in un angolo.
«Father T. arriverà tra breve!», ci dice il ragazzo.
Sentiamo un calpestio dalle vicine scale. Le sorelle malesi della serata precedente ― con sottofondo di musica lirica a sottolineare un’atmosfera tardo-coloniale — sono arrivate prima di noi. Ci salutiamo un po’ affettati e cerimoniosi. Ci spostiamo tutti in un piccolo soggiorno, con poltrone comode e sprofondose. Arriva, poco dopo, Father T. Gli occhi gli ridono radiosi, nel vederci. N. mi presenta in maniera eccessivamente enfatica. Father T. è contento di conoscermi e mi resterà affianco per buona parte della mattinata.
Inizia la visita all’ospizio. Ospita oltre 300 pazienti. Persone di età diverse, portate lì in condizioni generalmente disperate, in stracci pieni di merda. «Il 35% dei nostri pazienti non ha il controllo degli intestini», mi dice Father T. con distaccata professionalità, compiacendosi, tra le righe, del suo eroismo cattolico militante, «dunque il nostro personale deve essere costantemente attivo, costantemente pronto a pulire e disinfettare». Percorriamo un lungo corridoio. Siamo nella sezione maschile. Separati da bassi muretti, possiamo vedere le camerate. Ospiteranno 50-60 letti ciascuna. Letti di ferro; archetipi di letto da ospizio. Sui materassi ci sono vecchie coperte grigie e sopra siedono o semplicemente giacciono persone con sguardi persi, che non hanno più nemmeno la forza della disperazione. Non mancano pazienti abbastanza giovani. Uno di questi, nel vederci oltre il basso muretto, recupera un paio di grucce e si alza in piedi poggiando, scalzo, su di una gamba sola. Altri pazienti, giovani o, più spesso, che hanno superato la cinquantina, hanno bende sugli arti ed altri ancora tossiscono sotto le coperte impolverate. Nell’aria è ineludibile un penetrante odore di disinfettante. Usciamo in un giardino tenuto, probabilmente, da buoni giardinieri. Uomini e donne, anziani e meno anziani, siedono in terra. Siedono e basta, senza più parole né emozioni da esprimere. Non sembra aspettino nulla, nemmeno la morte! Qualcuno defeca pubblicamente. Una donna mi colpisce per la grave magrezza. Ha le braccia e le gambe filiformi e la testa ridotta quasi ad un teschio.
Come visita di inaugurazione del nuovo anno non c’è davvero male! Alcuni sproloquiano, gesticolano chiusi in un loro vuoto delirio. Sono pazzi!
Father T. continua placido, sornione, la descrizione di quell’inferno, dopo avermi scelto come interlocutore prediletto.
«Alcuni arrivano qui con disturbi psichici, dalla semplice depressione a disturbi via via più gravi; noi accettiamo tutti tranne gli schizofrenici. Per loro c’è bisogno di altro genere di strutture. Le persone disturbate mentalmente sono un valido aiuto per l’ospizio. Quando tornano un po’ in sé possono lavorare, dare il proprio supporto per gli altri pazienti; c’è una cronica assenza di personale qui!».
Mi sorge spontanea la domanda: «qualcuno viene dimesso da questo posto? Può ritornare ad avere una vita “normale”?».
Father T. è vagamente evasivo ma arriva poco dopo a dirmi: «i nostri pazienti debbono accettare che resteranno qui per tutta la vita!».
Capisco, insomma, l’antifona; chi varca il cancello dell’ospizio deve lasciar fuori qualunque speranza. Resterà in ospizio, se non come paziente, come assistente.
Il problema non si pone, naturalmente, con i pazienti più anziani o molto malati. Per loro c’è una bella struttura in cemento armato con molti loculi. Father T. me la descrive come l’ultimo ritrovato del genio umano: «noi abbiamo 20 e più decessi al mese. A Dicembre sono mancati 27 pazienti. Come vedi, questa struttura (un parallelepipedo alto 4-5 metri e lungo tra i 15 ed i 20) è sotto il sole. Noi mettiamo i cadaveri nei loculi e li sigilliamo con il cemento. Il processo di decomposizione è dunque molto rapido. Dopo circa un mese, del cadavere non resta più nulla. All’interno il loculo è leggermente inclinato, con il caldo ed il forte tasso di umidità il corpo, decomponendosi, scivola in un buco predisposto in fondo, trascinandosi tutte le ossa e finendo, direttamente, sotto terra. Dopo circa 6 mesi il loculo è nuovamente utilizzabile per un nuovo cadavere».
Naturalmente i loculi, essendo di volta in volta riciclati, non recano il nome di alcun defunto. Del resto, è probabile che molti pazienti non abbiano nemmeno documenti.
Arrivano la coppia di olandesi della sera precedente con le mani unite nel saluto dell’anjali: «Father T., happy new year!». La donna inizierà, nei suoi bianchi pantaloni ad un tempo casual ed eleganti, un pacato birignao con il prete. Hanno, naturalmente, una busta di fondi ed altri soldi sono arrivati, tramite il polacco, dal Rotary Club.
Mentre camminiamo sorprendo un ragazzo giovane, forse più giovane di me, i tratti somatici vagamente mongolidi, sotto un albero, sopraffatto da un’inconsolabile tristezza. Anche di lui credo di poter dire che non abbia più nemmeno la forza della disperazione. Non mostra tracce di problemi fisici. Penso possa essere uno di quelli che debbono rassegnarsi a trascorrere lì tutta la vita. Continuiamo a passeggiare in giardino. Ci sono belle piante ma quel che più mi colpisce ed angoscia è l’alto muro di cinta. Mi chiedo quanto possa essere agevole scappare da un posto del genere.
Poco dopo è pronto in tavola. Nel frattempo è arrivato anche Gabriele che si era perso non so dove, la sera prima.
Prima di mangiare Father T. recita la sua preghiera, accennando ai 300 pazienti del suo ospizio come ad altrettante espressioni di Gesù sofferente sulla croce. Commento con Gabriele quanto questo genere di posti siano l’espressione di una sconfitta cocente per il genere umano. Una società dovrebbe essere organizzata in modo tale da prevenire l’abbandono di interi strati di popolazione a se stessi. Non dovrebbe esserci analfabetismo (ancora al 35% in India), né una povertà degradante che non può non innestare spirali depressive. Dovrebbero esserci condizioni di lavoro un minimo sicure per evitare che gli infortuni si traducano in mutilazioni e, di conseguenza (nella quasi generale assenza di qualunque forma di indennizzo o assistenza), in emarginazione e mendicità. Dovrebbe esserci una elementare assistenza sanitaria pubblica per evitare il cronicizzarsi di malattie nella maggior parte dei casi curabili ed i più deboli socialmente (oltre il 30% delle persone, in India, vive ancora sotto la soglia critica della povertà, con meno di un dollaro al giorno, malgrado il PIL del paese cresca all'incirca del 7% ogni anno) non dovrebbero essere costretti a vivere, abbrutirsi, ammalarsi ed impazzire in strada. Non è possibile abolire la vecchiaia, né malattie degenerative ma non ci si può nemmeno mettere l’anima in pace perché, estrema ratio, esistono posti orrendi come quello di Father T. Il tutto con la benedizione ed il sostegno economico di una macroscopica lobby di potere che da secoli acquisisce prestigio perché conforta i poveri, gli ultimi ed i dimenticati. Poveri, ultimi e dimenticati di cui potremmo fare volentieri a meno. Pretendere condizioni umane di vita per tutti: quella dovrebbe essere la vera battaglia di civiltà di tutte le chiese! Ma che ne parliamo a fare?!
Concludiamo la nostra visita da Father T. nel suo ufficio. Ci dà un pacco di volantini a testa. La foto su ciascun volantino è raccapricciante: un ragazzo indiano che mostra quel che resta di una mano completamente necrotizzata, con alcune ossa ed ossicine in evidenza. Non posso non pensare di trovarmi di fronte ad una sorta di perverso culto della sofferenza. Una perversione tutta cristiana!
Torneremo da Father T., piuttosto di corsa, un paio di giorni dopo. Lui mi risequestra per qualche minuto. Mi guarda con i suoi occhi radiosi: «quando pensi di venire a stare qualche giorno qui a fare un po’ di volontariato?».
«Questo non te lo posso promettere, Father», gli rispondo con prontezza e noto che il suo viso, da che mi fissava radioso, si è improvvisamente oscurato. Assume un’espressione difficile da descrivere. Gli occhi fissano il nulla ed il viso, accusando la sorpresa, reca senz’altro un’ombra di ferocia, sull’onda di un grave risentimento. «Father T. è abituato ad essere venerato» mi dice in seguito Gabriele che ha invece voluto mettersi in gioco come volontario, «lui si aspettava che tu fossi entusiasta di stare lì qualche giorno, di solito la gente risponde: ma certo Father, è un onore per me!».
Non dimenticherò quell’espressione primordiale ma lì per lì mi limito a registrarla di sfuggita, dare a Father T. una pacca sulla spalla e raggiungere, di filato, il SUV per poter, almeno io, lasciarmi alle spalle quell’inferno!

Gli itinerari tamil sono appena all’inizio (ed i reports non saranno, naturalmente, così crudi; pensavo fosse necessario condividere qualche istantanea di un'India meno stereotipata e più drammaticamente vera). Seguiranno altri post. Restate connessi!