TRANSUMANZA

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sabato 19 dicembre 2009

«Ma sullo yoga sbagliamo tutti!».

Credo sia giunto il momento di ridare fiato all'anima teoretica e filosofica di questo blog-magazine, riportandoci nel "Grande Oriente". Di seguito un vecchio articolo di Livia Manera, comparso su La Stampa il 10 dicembre 1995 sul libro di Elémire Zolla Le tre vie, presentato direttamente dall'autore. L'articolo mi venne spedito da Gianfranco Bertagni, autore del sito in quiete, di cui consiglio a tutti una visita.

Un convegno a Lucknow, un volo sopra il verde luccicante della piana del Gange interrotto dalla macchia bianca del Taj Mahal e poi Benares, dove li attendono cibo castigato e “calma inespugnabile”.
Così Elémire Zolla e sua moglie giungono, molti anni fa, all’università indù dove la facoltà di filosofia è divisa in due insegnamenti separate, l’Advaita Vedanta ed il Tantra. Nell’uno si ragiona, nell’altro il ragionare rinvia a una ginnastica ed a un’erotica. E qui — qui e nelle campagne circostanti, i cui monumenti visita con un eruditissimo monaco thai — il grande studioso di religioni e sincretismo si lascia assorbire dai pensieri su tre sentieri che si aprono all’indù, a cui un giorno dedicherà un libro.
Si tratta di Le tre vie, per la piccola biblioteca Adelphi, che esplora tre distinte maniere di giungere alla liberazione, scopo ultimo e massimo dell’esistenza nella filosofia indù.
«La liberazione è una trasformazione totale dell’uomo, che si scioglie non soltanto dai doveri — quello sarebbe molto semplice, lo fa anche il criminale — ma si liberaa da qualunque istinto, da qualunque forza dell’inconscio che possa minacciarlo», spiega pacatamente Zolla nella sua casa di Montepulciano dove da anni conduce un’esistenza da studioso cosmopolita. «È il presupposto di una concezione perfettamente razionale della realtà. È anche il presupposto di una vita sensata».
Per la filosofia indù, infatti, l’uomo liberato avrà assolto tutti i suoi doveri, verso la società — procreando, lavorando, assestando la famiglia — prima di affrancarsi dalle infinite coazioni che affliggono l’esistenza di tutti. E allora, spoglio e dimentico, vivrà in pieno, senza ostacoli, tutt’uno con il nucleo di felicità che nel corso dell’esistenza affannosa l’ha sorretto. Libero, dunque, non solo dagli obblighi ma anche dall’istinto che fa scattare la presa, l’istinto che annebbia, infervora, accende i tormenti del desiderio. «Chi giunga a questa sconfinata apertura sulla vita — scrive Zolla — sarà simile a chi detenga la somma del potere; abbia a disposizione l’intera estensione del lecito e dell’illecito, abbracci con sguardo imperiale la verità documentata e quella, più importante, di cui non resta traccia…».
Non volendo aggiungere nemmeno una virgola a quello che Mircea Eliade ha scritto sullo yoga, via per eccellenza alla liberazione, Zolla sceglie di concentrarsi dunque sul metodo di tre vie alternative — conoscenza, devozione e tantrismo — che corrispondono a tre tipi umani: il razionale, il sentimentale e l’uomo soggetto s furiose passioni. Ma che cosa induce a sceglierne una in particolare? «È l’istinto — risponde Zolla —. È uno scatto che non si è nemmeno meditato».
Parla con un leggero accento toscano, tradendo talvolta di pensare in inglese, lingua di sua madre in cui ha scritto parte di questo libro nell’arco di quindici anni, mentre dava alle stampe una quantità à di altri saggi tra cui Archetipi, I letterati e lo sciamano, Uscite dal mondo e Lo stupore infantile.
Molti anni fa Mario Praz lo chiamò a Roma a insegnare letteratura nord-americana all’Università della Sapienza, ma quando Zolla gli mandò un suo libro in cui parlava del controllo dei sogni che I tibetani conoscono perfettamente, Praz, che non riteneva una simile ipotesi ammissibile, s’indispettì e ruppe l’amicizia. Fin da allora, convinto che la conoscenza razionale sia insufficiente senza la frequentazione di un sapiente, Elémire Zolla è andato alla ricerca di maestri, di sciamani e li ha trovati tra gli studenti della cabala o del sufismo, tra gli iniziati del Tao e dello zoroastrismo, insomma in quell’universo di culti e miti da sempre ignorati dagli intellettuali d’Occidente.
Ne Le tre vie ricorda che è dal 1789 che in Europa va crescendo la diffusione del pensiero indiano, da quando alcuni suoi testi entrarono a far parte della British Library.
«Fu Sir William Jones a farli conoscere — dice —, un giovanotto molto intelligente, di straordinaria rapidità nell’imparare le lingue orientali. Dopo aver appreso il persiano ed il sanscrito, cominciò a interessarsi della filosofia Indiana e riuscì a farsi mandare in India dalla Compagnia delle Indie. Si portò dietro alcuni amici, con I quail fondò la Società per gli Studi Orientali di Calcutta. E si mise nella condizione di discepolo di alcuni saggi kashmiri, imparando tutto quello che era possibile in quegli anni. Poi iniziarono le guerre napoleoniche e buona parte di questi giovani tornarono in Inghilterra con mille difficoltà. E da quel momento in poi si può dire che l’India cominciò a far parte della cultura europea».
Ma la diffusione della cultura indiana, soprattutto in Inghilterra, racconta Zolla, è stata soggetta a cicli di innamoramento e freddezza.
«Dopo il primo entusiasmo, il governatore dell’India Macauly tentò di imporre lo studio del latino e del greco scoraggiando il sanscrito, cosa che spinse gli indiani a creare l’Università di Benares come reazione all’imposizione inglese». E lo stesso ciclo di entusiasmo seguito da freddezza lo si ritrova in T.S. Eliot e Friedriech Schlegel, entrambi i quali, dopo un’opera influenzata dall’India, si volgono al cattolicesimo in modo molto chiuso e diffidente. «Persino sir William Jones, spaventato dall’idea che la filosofia indiana potesse avere un effetto rivoluzionaro e indebolire l’Occidente, ha un moto di paura».
Tuttavia è un fatto che la filosofia nata dal buddismo e dall’induismo si sia rivelata più ammaliante di quella di tradizione greca, toccando in California, negli Anni 70, il culmine della sua popolarità.
«Questo si spiega — dice Zolla — col fatto che è la coerenza assoluta. Non c’è una maglia di questa dimostrazione che non tenga pienamente, quando si sia accettata la premessa. Ora questo è un esame logico che non tiene per nessun sistema diverso. In tutti c’è il punto in cui si smaglia la costruzione, persino nella meravigliosa logica di un sistema come quello di Leibniz. E poi c’è anche il fatto che alcune menti erano semplicemente stanche delle proposte ideologiche a cui era ridotta la filosofia ad un certo punto. Questo è il momento in cui Huxley e tutti i suoi amici, Isherwood e gli altri, si convertirono filosoficamente all’induismo, sazi di ideologizzazioni europee».
In quel momento cominciò a diffondersi su larga scala anche lo yoga. Ma Zolla ci ricorda che a dispetto dello splendido saggio che ad esso ha dedicato Mircea Eliade nessuno in Europa lo consoce veramente e nessuno lo pratica nel modo giusto, non come ginnastica ma come via alla liberazione che non comporta soltanto lo sforzo della mente, ma anche del muscolo, la produzione di ormoni ed una purificazione costante dei condotti nasali, dell’ano e dell’uretra, la cui assenza ci rende di fronte allo yogin di un sudiciume intollerabile.
Allo stesso modo, nell’arco di tre secoli, abbiamo scoperto così poco del patrimonio culturale dell’India, secondo Zolla, da brancolare ancora nelle congetture. Persino le date della sua storia restano misteriose.
«Eppure — confessa nell’ultima parte del suo piccolo e densissimo libro —ramingando per foreste, indagando angoli dimenticati di templi, percorrendo torridi, umidi, tenebrosi vicolacci, raccogliendo confidenze, lì ancora può capitare l’incontro con qualche barbaglio del passato remoto che ci tramuta».

Livia Manera